lunedì 3 giugno 2013

Da Spielberg a Jean Bach. E' morta la regista di "A great day in Harlem"

Roberto Silvestri

Ricordate The terminal, il film di Steven Spielberg del 2004? E Tom Hank, ossessionato da una fotografia? Era un ritratto collettivo: 57 giganti del jazz dell’epoca d’oro, da Thelonious Monk (occhiali scuri e giacchetta bianca) a Dizzie Gillespie (che fa la linguaccia), da Count Basie a Coleman Hawkins, da Charlie Mingus a Sonny Rollins, tutti riuniti insieme ad Harlem, sulla scalinata di un “brownstone” (il tipico palazzetto di mattoni scuri), in una indimenticabile fotografia diurna scattata il 12 agosto 1958. Solo 4 dei 57 artisti oggi sono ancora vivi.
foto di Art Kane
Il personaggio impersonato in The Terminal da Hanks, Viktor Navroski, che viene da un imprecisato est, forse dagli odori e sapori yiddish (gli stessi della famiglia Spielberg?), è sbarcato negli Stati Uniti (non senza difficoltà) in cerca di un tenor-sassofonista african-american, Benny Golson. Se riuscirà a strappargli l’autografo la collezione del padre (defunto) sarà finalmente completa. Golson è l’ultimo dei 57 musicisti, il pezzo mancante (ed è uno dei superstiti).
Perfino la burocrazia più assurda e inventa cavilli gli si mette contro. Lo imprigiona nell’aeroporto (ormai sono diventati tutti carceri di ‘clandestini’). Eppure Viktor, lo dice il nome stesso, ce la farà. Senza il jazz, l’utopia del melting pot, la libertà massima di fraseggio individuale, la felicità collettiva, l’opposizione anche rabbiosa, è mai possibile l’americanizzazione di chiunque? E poi non sono forse i jazzisti gli artisti meno presuntuosi che esistano?
Ma quale era il segreto fascino di quella strana posa? Cosa nascondeva? Quale pazzo era riuscito a riunire tanti geni musicali ‘round midnight, in uno stesso luogo, in uno stesso momento, e di giorno? Come riuscì nell’impresa? Chi gli sfuggi? Insomma cosa c’era dietro all’immagine?
Spielberg in The Terminal, una fiaba originata da un documentario, un mockumentary che fantastica su un’icona storica diventata celebre poster, più o meno palesemente, rende omaggio a una serie di artisti attratti in maniera quasi maniacale, come lui, dall’ immagine, e non solo ‘sonora’. E, soprattutto, da quella immagine. Dal suo valore estetico, emotivo, mitico, di archetipo. Dal suo mistero.  
Parliamo di Art Kane, prima di tutto, il giovane fanatico di jazz e art director che, assunto dalla rivista Esquire, scattò quella fotografia, non certo di routine, e la sua prima professionale, per un numero speciale dedicato al jazz che uscì nel gennaio del 1959 (con la sua foto in doppia pagina, e ripubblicata dappertutto un milione di volte). 
E poi del graphic director di Esquire che gliela commissionò, Robert Benton, l’amico di Robert Altman e regista, successivamente, di Kramer contro Kramer e Places in the Heart. Della moglie di Altman, Kathryn, che aiutò, più di 30 anni dopo, l’ex produttrice radiofonica Jean Bach, pazza di jazz e amica intima di tanti musicisti, a realizzare un documentario che raccontasse come era avvenuto quel magico meeting di talenti newyorkesi “come se tutti i pittori impressionisti francesi fossero dipinti in uno stesso quadro”.
Ossessionata a lungo da quella fotografia che aveva visto per la prima volta sul finire degli anni 60, Jean Bach, che si definiva ‘la prima goupie del jazz’,  realizzò però solo nel 1994  A Great Day in Harlem*, un’opera ricca di preziose interviste, di rari materiali di repertorio e di un testo fuori campo affidato a Quincy Jones, anche perché si giustificasse della sua imperdonabile assenza. Kane aveva dato appuntamento a tutti alle 10 di mattino.  La maggior parte dei musicisti, si pensava, non sarebbero mai arrivati dopo aver suonato tutta la notte fino alle ore piccole. Inoltre l’orario era talmente bizzarro che uno di loro affermò di non aver mai saputo che esistessero” ben due ‘ten o’ clocks’ “. Però, miracolosamente arrivarono 58 leggende viventi al numero 17 est della 126esima strada, tra Fifth Avenue e Madison. 
C’era, vacillante, occhialoni scuri, l’intero spettro della storia musicale americana, dall’epoca New Orleans al Cool Jazz. Giovani, neri, vecchi, bianchi, uomini, donne… Mary Lou Williams, Roy Eldridge (l’unico che non guarda in camera, distratto da Gillespie), Marian McParland (con un vestito da Marilyn Monroe), Lester Young, Red Allen, Gene Krupa, Buck Clayton, Art Farmer, Art Blakey, Horace Silver, Gerry Mulligan, Pee Wee Russel, Jo Jones, Oscar Pettiford, Rex Stewart, Max Kaminsky….Willie “The Lion” Smith il genio pianistico stile Harlem, era arrivato, stava lì, a un passo, ma mancò lo scatto….E dunque ne furono immortalati solo 57.
Il documentario vinse il festival di Chicago e fu candidato agli Oscar 1995. E Spielberg dedicò, tra le righe, esplicitamente, The Terminal proprio a Jean Bach, che è morta lunedì scorso a New York all’età di 95 anni e aveva 76 anni quando il film venne presentato. E rimase bellissima fino agli anni 90, sempre regale, mai snob, come ha dichiarato la sua amica e celebre fotografa Carol Friedman. Si racconta che quando Frank Sinatra arrivava a New York la prima cosa che diceva era: "che si fa stasera da Jean?" perché erano imperdibili i suoi party al Greenwich Village con l'amico Bobby Short.
Affiancata dal produttore Matthew Seig, dalla montatrice Susan Peehl e dal compositore e arrangiatore Johnny Mandel, Jean Bach quando decise di girare il documentario scoprì che solo 12 dei 57 musicisti del 12 agosto 1958 erano ancora vivi, 35 anni dopo, e li andò a cercare. “Solo lei conosceva davvero tutti nell’ambiente – ha dichiarato Mandel, che ha lavorato con Count Basie, Frank Sinatra e Natalie Cole, al New York Times – è stata nel centro pulsante del ‘movimento’ dal be-bop ad oggi. Bach era la migliore amica del jazz”.
Jean Bach con il suo amico pianista Bobby Short
Jean Enzinger Bach era nata a Chicago il 27 settembre 1918, figlia di un pubblicitario e di una ricca e decaduta ereditiera canadese(George e Gertrude Enzinger, una coppia da Scott Fitzgerald che divorziò nel '36). Jean da ragazzina, allo Sherman Hotel si innamorò (ricambiata) delle musiche di Duke Ellington, Johnny Hodges, Ben Webster e del cornettista favoloso Cootie Williams. Teenager studiò al Vassar College, a un passo da Harlem, e passava tutto il suo tempo notturno - bionda, occhi azzurri e bellissima - nei club, all'Apollo, dove ascoltà Billie Holliday . Dal 1941 al 1947 fu moglie del trombettista jazz bianco Shorty Sherock (conosciuto al Three Deuces di Chicago, che la portò dopo tre settimane  a Los Angeles, dove suonava cool con Gene Krupa) e lavorò, trasferitasi a Manhattan, come sceneggiatrice radiofonica e ufficio stampa. Nel 1948 sposò il produttore della radio Bob Bach e produsse fino al 1984 l’Arlene Francis Show per l’emittente WOR (originariamente si trasmetteva dal ristorante del distretto teatrale, il Sardi's, e tra gli ospiti Duke Ellington, Carl Sandburg e Leopold Stokowski). Nel 1989 incontrò casualmente il bassista Milt Hinton (uno dei 57) a un party. Sua moglie Mona aveva ripreso il set fotografico dell’estate ‘58 con una cinepresa portatile 8mm a colori. Un footage davvero prezioso. E così nacque A Great Day in Harlem. In caso contrario avrebbe donato allo Smithsonian le sue lunghe registrazioni realizzate con i più grandi jazzisti della storia. Nel 1996, quasi come un sequel, Bach realizzò sempre con Seig e Peehl al fianco, il cortometraggio di 21 minuti, The Spitball Story, che è interamente dedicato a un episodio della band swing di Cab Calloway 1941 – il licenziamento di Dizzy Gillespie -  raccontato da tre componenti dell’orchestra, lo stesso Dizzy, il bassista Milt Hinton e il trombettista Jonah Jones. Ha vinto anche questo cortometraggio il festival di Chicago. Jean Bach stava lavorando a un documentario, non ancora terminato, su Gerry Mulligan.



* si può vedere il film su you tube: http://www.youtube.com/watch?v=SvvjIuAdGqw

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