giovedì 21 novembre 2013

Portoghesi, ancora uno sforzo per tornare cosmopoliti. Una vita invisibile di Vitor Goncalves

Roberto Silvestri

Ogni artista è solo. "Viviamo, nell’imbrunire della coscienza, mai certi di cosa siamo o di cosa supponiamo essere" (Pessoa). Ma non ogni paese è solo. Il Portogallo, però, sembra solo e isolato, ed è messo molto male economicamente, come noi. Ha un governo tardoliberista perfino peggiore del nostro e un leader europeo come Barroso che come tutti gli ex maoisti non finisce mai di pentirsi per i suoi errori di gioventù, ma con lo stesso fanatismo di prima. Non vi dico la depressione che c'è in giro e la voglia di fuga dei giovani. Eppure c'è anche la speranza che alcuni stati del sud europa si coordino tra di loro e urlino forte il loro no alle stangate anti popolari.

Presto, infatti, i partiti di destra-centro lusitani, Psd e Cds/Pp, saranno entrambi fortemente ridimensionati (a giudicare dalla vittoria socialista e del Cdu nelle recenti amministrative, e dal semestre italiano Ue). 

Meno male, perché l'idolatria del profitto per pochissimi sta rovinando anche il gracile tessuto di un cinema più originale, colto e raffinato di tutti, in Europa, e che ha prodotto, dopo la rivoluzione democratica, straordinari film d'esportazione, intellettuale, universitaria, televisiva e festivaliera. Si pensi a Tabù di Miguel Gomes, ai film estremi di Joao Rodrigues, ai classici non classici di Manoel de Oliveira, che a 104 anni ancora progetta film. E a come ci divertiremo noi quando un giudice indagherà sui funzionari Rai colpevoli di non aver voluto acquistare tutta questa bellezza
Filipe Duarte e Maria Joao Pinho
post-Camoes, per buttare molti più soldi per raccomandare (stile Cancellieri) bellezze solo bulgare...


"Il governo neo-liberale si nasconde dietro la crisi per negare i finanziamenti e uccidere il cinema. I soldi in verità ci sono. Ma ho fiducia, le cose cambieranno" ha dichiarato durante il festival romano un giovane produttore di Lisbona, Pedro Fernando Duarte, invitato all'Auditorium Parco della Musica per lanciare il suo nuovo, bellissimo film, A vida invisivel. Che si rivolge ai portoghesi e li arringa. Preferirei di no, bisognerebbe dire all'Austerità coatta imposta da Berlino. Smettetela di non  vivere la vostra vita. Cercate di imparare da Bartebly, e capite finalmente cosa significa essere vivi, trasformando la mortalità in potere collettivo, uomini donnne e quant'altro, costituente...I portoghesi, almeno, hanno già dimostrato di saperlo fare quattro decenni fa. Sanno suonare musica differente. 

...e la Placa di Comercio di Lisbona
Uno degli eventi preziosi ma subcutanei dell' 8° Festival Internazionale del Film di Roma è stata infatti la proiezione in concorso del secondo film del maestro Vitor Gonçalves, il cineasta portoghese nato nelle Azzorre nel 1951, autore finora di un solo capolavoro, Uma rapariga no verao (Una ragazza in estate), datato 1986 e diventato un film culto delle generazioni lusitane del dopo dittatura Salazar-Caetano. Innanzi tutto è la partitura musicale più straordinaria di tutto il festival. Sinan C. Savaskan, che ne è l'autore, è un nome che dobbiamo segnare. Da anni non entravamo in una dialettica suono immagine così violenta, irriducibile, dissonante, corposa, materica, tragica. Dunque.

Un'altro colpo raffinato e non plateale di Marco Mueller, anche se il film è passato, mal osservato, al vaglio della giuria ed è stato guastato della massa critica dominante, quella affetta da lentofobia estremista e con le idee piuttosto confuse su cosa sia la noia. Riprendere con la telecamera i pensieri è quel che fa qualunque film avvincente di Welles o Selander. Ma non sempre un film avvincente deve finire con la sfida all'O.K. Corral. Eppure anche questo film, come Tir, nonostante il procedimento della voce off, mette protagonista uomo e antagonista donna in conflitto mortale, in collegamento obliquo e mai diretto, come tra abitanti di universi disomogenei (lì collegati nervosamente con il telefono, la donna non è mai in campo; qui con i giochi della memoria; lì è solo voce, qui Maria Joao Pinho è solo spettro). Siamo ai confini della realtà.
Vitor Goncalves


A vita invisivel, film dark, nerissimo, lievemente autobiografico, malinconico ma non disfattista, né rarefatto ed enigmatico, ma molto ben decifrabile, anche se per ognuno in modo differente, guidato dalla voce fuori campo come in un antico noir americano anni 40 - dove la paura e il terrore erano massimi per il protagonista maschile, fosse Bogart o MacMurray, perché collegati alla presa di potere, sociale e simbolico, della donna rooseveltiana insorta, indocile, per la prima volta da secoli, e in moltitudine seriale, al suo ruolo complementare di subordinata - è prodotto dalla Rosa Filmes, nata negli anni 90  per iniziativa di giovani cineasti della generazione di Joao Rodrigues, fisiologicamente estranei (se non in polemica) con le poetiche e le stilizzazioni old fashion delle generazioni precedenti (de Oliveira, Botelho, Montero, Rocha...). 



L'angoscia, da come la decifro io, mi sembra quella causata, come nei noir, dalla consapevolezza dell'artista non superficiale di fronte a quel che di molto losco sta accadendo...A quella parte guasta e retriva della cultura euro-occidentale che burkanizza non nelle strade, ma nell'immaginario, la donna. Tipico transfert che registra la debolezza estrema e la crisi definitiva del maschio (latino e wasp) che non vuole perdere identità e centralità - tanta violenza e crudeltà contro le donne scatena fenomeni di ripetizione suggestiva, come leggiamo nei giornali. Fugge, ha paura, perfino angoscia, cancella rimuove memorie, somatizza livore, odio, oppure sconfigge le zone dark e rinasce. Nel film questo accade. 

Joao Perry
Invece queste ombre funeste coriacee sembrano gli antidoti eurotalebani ai film nordamericani che ci piacciono di più in questi ultimi tempi (da Spring Breakers di Harmony Korine a Palo Alto di Gia Coppola ai Kelly Reichardt ai Todd Haneys, Linklater, Hal Hartley, Lloyd Kaufman e a tutti i cormaniani 'dentro'...) nei quali la donna, meglio se teenager, non si nasconde, non si cancella, non si allontana mai. Ma parte dell'Europa mostra segnali furibondi di regressione, e proprio nelle zone più illuminate e illuministe, la Russia, la Grecia e la Francia. C'è da tremare. Tralasciando le leggi anti gay di Putin, prendete le piccole prostitute per gioco di Ozon o per forza del film greco Miss Violence. Come sono lontane, nella loro sottomissione di testa all'accettazione giuliva o forzata della schiavitù, dalle colleghe bambine dei college Usa cinematografici.... 


uno dei filmini 8mm....
Infatti Goncalves gioca controcorrente e saggiamente in quest'opera di respiro 'sessantottino', che attua una sorta di sutura transgenerazionale, visto che è stato un allievo del rivoluzionario Antonio Reis, esponente massimo del "cinema dei garofani", prematuramente scomparso, tra i primi fautori (si pensi a Tras-os-montes, un film adorato da Enzo Ungari) della tendenza fusion/confusion oggi vincente, allora scandalosa, che innestava fiction (inventare delle intenzionalità, dei conflitti tra personaggi) a non fiction (e poi affidarsi al caso, anzi prevederlo, stocasticamente, aprire una finestra sul set, e non un minuto dopo e non un minuto prima, per far entrare aria pura e disperdere format e standard). 

In questo film la non fiction traumatizzante è il blocco visivo di 8mm suggestivi, e la qualità materica, cromaticamente unica del laboratorio Kodak, di un Atlas formato da panorami geografici senza rapporto tra di loro, sequenze riprese in continenti differenti - panoramiche di paesaggi con vento, pioggia, montagne, pianure, ghiacciai, alberi agitati, colline assolate, scogliere paurose - ritrovato nella casa di Antonio, giovane funzionario ministeriale scomparso, amico e ex superiore del protagonista Hugo (João Perry), anche lui statale. 

Filipe Duarte nel ruolo di Antonio (omaggio a Reis)
Immagini che creano il punto di rottura, l'evento catastrofico, intervallate dai ricordi esistenziali del protagonista, l'attore Filipe Duarte, in modo da coinvolgerci nella ricerca di un segreto importante, misterioso ma non troppo. Uomo che va da una parte, donna che va dall'altra. Come riunificarli in una inquadratura unica? E' proprio come l'Atlas Mnemosyne dell'eccentrico storico d'arte tedesco Aby Warburg, l'avventura delle immagini contigue e dissimili da coordinare (eravamo nel 1927, ma quel conflitto di immagini scordinate presto diventerà guerra mondiale fattuale), trattate quasi da segni che l'astrattismo geometrico esige di rimandare ad altro, il percorso dello sguardo che collega frammenti sparsi della memoria, avulsi tra di loro, e li porta a unità viva, a compresenza. Curiosamente riproposto, l'Atlas, nella sezione CineMaxxi dal fotografo franco-newyorkese Antoine d'Agata, allievo di Nan Goldin, in un film significativamente intitolato proprio Atlas. L'obiettivo si apre anche lì all'infinito del possibile, respingendo eternamente la morte (mentale).

Il film portoghese è un altro sì alla vita. E comincia con Antonio disperato che non vuole tornare nel suo appartamente dalle scalinate ottocentesche, e terrorizzato si siede nel buio sui gradini del pianerottolo. Ha visto quei filmini inquietanti. Sono immagini di territori lontani. La lusofonia, il Portogallo espanso, è la vera dimensione cosmica della zona atlantica della penisola iberica. Il suo imperialismo - parola di Pessoa - è sempre stato culturale, trilaterale. E' sentirsi contemporaneamente europeo, africano e asiatico. Vivere nel mondo, tornare nel mondo. Non rinchiudersi più come nell'epoca incestuosa di Salazar. Parte il flashback, come si faceva un tempo. Fluttuano i ricordi sepolti e rimossi. Ma non molto lontani. La Lisbona da cui riemergono è quella del dopo Expo (aprirsi al mondo) e degli edifici di Alvaro Siza. Modernissima. Con ponti di alta ingegneria spaziale. Anzi l'albergo in cui va a trovare la donna della sua vita, una hostess, per salutarla definitivamente e perderla per sempre, è addirittura postmoderno, transavanguardistico, nucleare, monocromatico. Il tempo dei ricordi va dall'inizio dei recenti lavori di restauro della Piazza del Commercio (costruita dopo il terremoto del XVIII secolo, simbolo della capitale che si ribella, che uccide re e dittatori, è una delle più grandi d'Europa, ha tre lati occupati da edifici pubblici, uno sul Tago e nella piazza c'è anche uno dei caffé preferiti da Pessoa ) fino al loro completamento (e non siamo a livello di linea C della metropolitana romana).

Pedro Fernandes Duarte (il produttore della Rosa Filmes) spiega l'arcano, l'innesto tra vecchia e nuova guardia, in conferenza stampa: "Sono stato allievo di Vítor. Anzi. Chiunque faccia cinema oggi in Portogallo è stato suo allievo". Gonçalves insegna infatti alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona ed è stato un pupillo del decano della critica portoghese, Joao Benard da Costa, e del patriarca del cinema indipendente europeo, quel Hubert Bals a cui si deve la nascita hippy e yippy (e non la consunzione e morte yuppie) del festival di Rotterdam. 











 



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