mercoledì 20 novembre 2013

Tir, i premi, le polemiche e altri film, in concorso o meno, al Festival di Roma:I corpi estranei di Mirko Locatelli e Lettere al Presidente di Marco Santarelli

Roberto Silvestri

Il vero scandalo della premiazione al Festival Internazionale del Film di Roma numero 8, è solo il premio a Mattew Mc Conaughey per Dallas Buyers Club di Jean Marc Vallee. L'attore è fantastico sempre, e qui recita perfettamente, esageratamente, insomma da primo premio. Ma in una competizione internazionale seria il festival non può premiare preventivamente uno dei film in gara, assegnandogli, come è successo quest'anno, un Vanity Fair International Award for Cinematic Excellence, in esagerato odore di sponsorizzazione... I film in gara devono partire tutti dalla stessa linea... 

Matthew McConaughey
Non siamo invece d'accordo con chi ha trovato provocatorio il premio kubrickiano a Scarlett Johansson, cioé alla macchina Samantha, come migliore attrice protagonista per aver prestato solo la voce (sensibile, profonda e divertente, citazione del Papa postmoderno Spike Jonze al sistema informatico, di un futuro già passato, Hal di 2001 Odissea nello spazio), e non il volto e il corpo, a Her. E' vero che al cinema - diceva Charles Laughton, si recita con le mani e non con la voce, a differenza che nel teatro. 

Scareltt Johansson
Ma è anche vero che dall'epoca di Laughton molte cose, nel cinema e nel teatro della vita, sono cambiate. E anche da qualche tempo: The voice poteva essere considerato un attore protagonista virtuale prima ancora che Frank Sinatra recitasse con Frankenheimer o Carmelo Bene non lo spiegasse via microfono tecnologicamente avanzato anche ai muri e ai muli. 

Lettere al Presidente
Lo è, per esempio, la voce, attore protagonista, anche perché una è mia, in Lettere al Presidente di Marco Santarelli (presentato nella bella sezione dei Doc italiani) collezioni di voci di connazionali arguti ostinati o sognatori di tutti i sessi, ceti, regioni ed età, che si rivolgevano, via lettera, a chi, da De Nicola a Einaudi, da Leone a Saragat - dalla miseria del dopoguerra al boom e alle bombe che molti patirono e solo in pochi si godettero - forse avrebbe aiutato chi non ha potere alcuno, né padrini né partiti né parroci, perché è il numero uno in democrazia, come il re in monarchia, a raddrizzare torti, dare speranza ai disperati,  trasformare i sogni e le fantasticherie più bizzarre in realtà. L'ultima spes, anzi l'unica.

Si trattava, per alcuni studenti abruzzesi, di farsi mandare su Marte (in tre, perché la capsula spaziale di più non poteva, e qualche compagno di scuola è ancora incazzato), di appoggiare invenzioni formidabili e funanboliche, di chiedere soldi in prestito per una operazione di plastica facciale da fare oggi o mai più, poi si diventa vecchia, o di far smettere d'incanto lo strapotere antipopolare della Fiat da sempre vallettiana...


Il vuoto di società civile che esce fuori da queste suppliche d'era quasi faraonica, come il paternalismo inquisitorio delle risposte, è impressionante. Sarà il sessantotto a regalare anche questo al nostro paese ingrato ('68 che, non a caso, è pressoché fuori dall'arco temporale del film), regolando, con la precisione degli orologi settecenteschi del Quirinale quotidianamente ricaricati, un po' di conti con le Eccellenze i Commendatori i Cavalieri e le Sue Santità (a parte certi cedimenti recenti neo feudali della stampa più liberal-democratica, ben segnalati da Alberto Abruzzese, maestro di Santarelli, a proposito dell'intervista di Scalfari al papa).


Marco Santarelli, regista produttore e sociologo della comunazione romano, conferma di sapersi muovere molto bene, da subacque nei  territori sub, paludosi e guasti, ma non per questo meno fertili e melodici, del nostro immaginario non ufficiale e marginale. E di saper far colonna sonora con le immagini, trasportando - grazie alla sua collaboratrice Teresa Bertilo (che delle decine di migliaia di lettere spedite al Quirinale è la massima esperta), un tessuto di materiali di repertorio non illustrativo, asincrono, sfavillante (come il bianco e nero fantasmagorico di quelle attualità giornalistiche). 
Marco Santarelli


Sequenze che, sradicate a volte dal loro contesto sonoro, diventano ancora più significative, e sono scelte tra quelle più amatoriali, oblique e da home movies, ingenue e mai artatamente spontanee, dell'archivio Luce. Non si vuole fare una contro storia del paese come se ne sono viste tante. Nè, alla Chiambretti, si vuole prendere in giro la giocondità contadinesca e ingenua dei senza potere alle prese con i trabochetti della metropoli tentacolare. Santarelli affianca e ama i suoi eroi. E' complice di questi spettri riportati in vita. E li vendica anche. I loro disegni mentali, demodé o inattuali o verranno esauditi prima o poi o questa democrazia sarà sempre dimezzata, mai rampante, invisibile. 

Santarelli interpreta bene la tendenza anti scolastica del documentarismo italiano. Stanno rendendo la vita davvero difficile al cinema mainstream a soggetto, che già è in crisi nera, questi gioiellini. Film no fiction che fanno critica delle sequenze asservite a soggetti-format. Criticano la loro costituzione d'oggetto. E la forulazione di immagine. Dopo Santarelli, Gianfranco Rosi, lo stesso Frammartino, Fasulo, le immagini commerciali e spettacolari (anche del cinema d'arte) ci sembrano tutte così false e piatte, orpellose e estetizzanti. Persino quelle più in auge di Garrone o Sorrentino. Vuote. E' l'effetto che Straub faceva paragonato a Bellocchio e Bertolucci. E anche lì si sprecavano i che noia, che palle...Ma l'arte non è divertimentificio esteriore.

Tutto ciò  rende più spiegabile e comprensibile la polemica aperta dal primo premio a Tir. Film sui trasporti. Un argomento di cui tra l'altro Santarelli è esperto, avendo già realizzato le prime due parti di un trittico sulle merci circolanti, un primo segmento navale (Genova Tripoli) e un secondo segmento proprio camionistico (Interporto).         

Dall'epoca di Laughton a oggi molto è cambiato. I campi controcampi della vita vissuta sono spesso virtuali, senza corpi antagonisti. Nelle nostre strade metropolitane, o sui treni e in metropolitana, dialoghiamo con i "fantasmi", che sono più presenti di prima, un flusso quasi continuo, e molto più fracassoni: i passanti parlano da soli a voci altissime come dei pazzi o degli innamorati scatenati e spudorati. Con voci, non con corpi si dialoga. Per non menzionare le chat di Facebook, Skype senza video e lo scrivere nel vuoto affollato di Twitter. E nelle automobili chi guida si agita pericolosamente, senza guardare la strada, la segnaletica, i passanti. Viviamo, parliamo, sussurriamo con/a esseri invisibili. Che ci formano e ci deformano. Sono voci materiche tenute a distanza. Spettri quotidiani banali, presenze ologrammatiche 'interiori' fisse ma fuori campo. 

I corpi estranei, Filippo Timi
Il numero dei film scelti dalla banda Mueller per Roma che prevedevano, come la Voce umana, tante solitudini ossessionate perseguitate da doppi paurosi o burocrazie invisibili (Coixet, Pirselimoglu, Gruzsnick..), tante Anna Magnani impegnate a parlare con antagonisti invisibili dall'altra parte del filo e della cornetta, era piuttosto impressionante. Ieri si premiava Anna Magnani. Oggi si premierebbe magari perfino quella voce che la strazia e la tiene in pugno (e neanche si sentiva, nel film L'amore di Rossellini, 1947).  

Voci recitanti e assenti anche nell'altro film dark italiano in competizione, I corpi estranei di Mirko Locatelli (opera seconda dopo I primi giorni d'inverno del 2008), realizzato assieme alla moglie, Giuditta Tarantelli, cosceneggiatrice e coproduttrice del film. Il dramma, transculturale, segue, secondo dopo secondo, la metamorfosi di Antonio (Filippo Timi), che viene dal sud ed è solo a Milano in ospedale, per accompagnare suo figlio, il piccolissimo Pietro, affetto da una forma grave di cancro. Ma c'è un impiccio imprevisto. Una numerosa famiglia di arabi-islamici, proprio nella sala accanto. Antonio non gradisce, sulle prime. Oltretutto sono anche invadenti. Soprattutto il quindicenne Jaber, che si impiccia troppo, prega troppo, ha strani traffici ed entra pure segretamente nella stanzetta di Pietro, fa il gentile, lo aiuta sul lavoro (che Antonio è costretto a trovarsi per pagare la sua sopravvivenza in trasferta)... 

Dolore, tensione, paura, disperazione, speranza, voglia d'evasione, naturalmente sono tutti stati d'animo trattati da Timi in diesis e bemolle, in auto, davanti alla macchinetta del caffé, nelle passeggiate da solitario metropolitano, al refettorio, nei corridoi ospedalieri, nella cappella cattolica, quando litiga con Jaber, quando a poco a poco ne comprende la compassionevole bellezza interiore. 

E i chiaroscuri del lavoro sul suo corpo e sul suo volto non sfuggono ai perfetti sistemi sensori di una macchina registica sensibilissima, che sa muoversi bene. Soprattutto quando, appunto, Antonio parla con la moglie lontana e apprensiva. Al cellulare. Una voce che muove i fili da lontano. Un corpo che non vedremo mai. Un tempo avremmo commentato alla Khomeini: 'madre snaturata". Oggi, con la crisi, è scusabile. Anche in fatto di risparmio sugli attori. 

Infatti sono tre i suoi antagonisti. Due materiali. La struttura ospedaliera, medici e infermieri (che Enzo Cei nel corto Nato prematuro ha ben radiografato e in primissimo piano). E la famiglia di tunisini che assiste l'altro malato grave, l'adolescente Youssef. Il terzo, la mamma lontana, spirituale. Come invisibile (ma olfattivamente prepotenta) sarà il farmaco magico che risolverà il caso. 

L'unguento della tradizione mediterranea, antichissima, secolare, stregonesca, fattucchiera, cosparso segretamente da Jaber sul corpicino bombardato dalla chemio. Un tocco di esotismo che Locatelli poteva anche risparmiarsi. E se il farmaco non funzionava? La metamorfosi si sarebbe interrotta? E' l'opportinismo che ci salverà dal razzismo inevitabile e ben fondato religiosamente?


E passiamo al primo premio.       


Zoran, la vendetta. Doveva vincere a Venezia come migliore opera prima. Una commedia alla Loach, con un bel po' di intelligenza, di sport (le freccette) e di vita vera frontaliera dentro. 

Orrendo e demodé nelle forme spettacolari utilizzate, invece, quel mocku-horror 'africano' che lo ha sconfitto al Lido e che vorrebbe colpevolizzare i selvaggi tribali per pratiche neocapitalistiche criminali (il commercio clandestino degli organi) tutte organizzate da corporation euro-americane. Vedere per credere (Zoran di Matteo Oleotto è nelle sale italiane proprio in questi giorni). 
Tir di Alberto Fasulo

Ma ora un film, Tir, della stessa scuderia e poetica "Alpe Adria", la friulana Tucker, anche questo di lingua mista, un po' italiana ma soprattutto serbo-croata, anche questo sui rapporti spesso conflittuali tra est e ovest, lo ha vendicato. E' il primo film italiano che ha vinto il Marc'Aurelio d'oro del festival di Roma. Fatto storico.  Il film non è piaciuto a chi non mette I piloti dell'inferno (Hell Drivers) di Cyril Endfield (1957) tra i migliori dieci film d'azione europei di sempre. Forse perché non l'ha visto (fatto che per i critici e gli addetti ai lavori è un peccato mortale). Un formidabile thriller politico con Sean Connery nel ruolo del camionista supersfruttato Johnny Kates non è roba da cinephilenerd o snob.  
Alberto Fasulo

Un film sui camion giganti, i mostri dell'autostrada, non fiction, ma inquieto, in stato d'allarme, in cerca di significati, espressioni, detour emozionali. Tocca al pubblico darli, provare le mille cose da cui un film si astiene, sono ombre e luci, se al cinema va seriamente, non per giocare, lavorare o gufare. Come ai vecchi tempi dell'arte concettuale. Ma non privo di agganci con il nostro immaginario più condiviso... Il salario della paura-Vite vendute; Convoy, Duel, Il bestione..., da una parte. Le lotte spettacolari dei camionisti di questi giorni, particolarmente colpiti dalla globalizzazione e dalla crisi dall'altra.  

Un film che racconta due o tre cose sulla vita e i problemi dei lavoratori dei trasporti (i camionisti), i ritmi frenetici, la solitudine, lo sfruttamento, la concorrenza degli autisti che vengono dall'est, ancora più massacrati di lavoro ma attratti dai super stupendi rispetto a quelli croati, serbi e rumeni, aprendo e non chiudendo il discorso e gli occhi ricettivi. 

Ma che lo fa utilizzando uno stile 'fiction non fiction' che è il più alla moda di tutti, una ossessione che stiamo vedendo crescere in molti drammi contemporanei (da Locke di Steven Knight in poi concentrarsi su un protagonista che parla, litiga, ama, si scontra solo al cellulare con famigliari e colleghi di lavoro, tutto dal sedile della sua auto, sembra un nuovo sub-filone arty, il one driver movie, come un tempo il nuca-road movie, sulle deambulazioni esistenziali viste dal di dietro) e una sapiente tessitura visuale. Faticoso certo il film solo per i festivalieri, costretti come i ciclisti della sei giorni a proiezioni multiple diurne e notturne. Ma fatto che non giustifica gli strepiti. Come si vedrà quando il film uscirà nelle sale. Attenti alla media sale/incassi.

   

La  vittoria di Tir, diretto dal cineasta friulano Alberto Fasulo, 37 anni, al festival internazionale del film di Roma (e anche il premio Amc per il montaggio di Johannes Hiroshi Nakajiama) ha infatti suscitato proteste e clamori istituzionali che ci ricordano i fischi di tutta Cannes, anche francese, anche miei, a Pialat tanti anni fa.

"Un film lento e noioso, nonostante il tema di grande attualità (visto lo sciopero dei camionisti italiani contro la legge di stabilità, che si annuncia forte, condivisibile e pericoloso), descrittivo, senza centro, senza un personaggio forte al centro della storia, un documentario che non ha sviluppo narrativo tradizionale, che apre troppe piste senza chiuderle"... Abbiamo già abbozzato per il Sacro Gra. Ora basta.

E ancora: "Una sciagura per il cinema italiano che vuole condannarsi alla minorità, all'emarginazione dal mercato, se indica questi "oggetti pericolosi del primo tipo" come vettori di un rilancio del ritorno in sala, che ormai ha un giro di incassi inferiore a quello della Svizzera. Al cinema non ci va più nessuno, Checco Zalone a parte, meno che mai per vedere opere così deprimenti, sfuggenti e così poco eccitanti". 

Abbiamo letto e ascoltato giudizi di questo tenore. Oppure, a peggiorare le cose: "Rumore bianco, il precedente film di Fasulo, sì che era interessante, ma questo è un grande passo indietro"... Non che Rumore bianco, il doc sul fiume Tagliamento, fosse pieno di suspense e azione, o sia stato oggetto di una campagna per imporlo in Rai in prima serat o in dvd su Ciak o in allegato al Corriere della sera in file...

C'è un riflesso condizionato, demagogico e prepotente, che taccia di intellettualismo e di snobberia tutti quei film che, aggiornati nel design, capaci di avere succsso nelle televisioni e nei circuiti di tutto il mondo, attentano al cerchio magico di ciò che è definito film spettacolare popolare nazionale, la cui struttura molecolare non può essere messa in discussione ed è considerata un format unico e indiscutibile. E' dall'epoca di Ciprì e Maresco, Nico D'Alessandria, Cane Capovolto, Pasquale Misuraca, fino al caso emblematico di Michelangelo Frammartino  che si considerano i cinepanettoni inesportabili la salvezza della nostra industria e i prototipi che dimostrano di sedurre il pubblico mondiale di normale cultura (e che andrebbero dunque seguiti, perfezionati, moltiplicati e aiutati di più, magari non negandogli mai i premi qualità) dei traditori della patria. Anche se un film di Maresco che viene acquistato dalle tv di tutto il mondo forse incassa di più di un Neri Parenti...


Ma. Data la qualità alta della giuria (diretta da James Gray, e comprendente cineasti come Naderi, Zhang Yuan, Lvovsky, Guskov, Chen e Guadagnino, cineasti di formazione e tensione documentaristica) sembrano abbastanza frettolose e ingiustificate le scandalizzate reazioni di una parte della critica professionista (e non solo del Corriere della sera e di Repubblica). Ovviamente non delle macchine decifrative di più aperta e aggiornata passione (Uzak, Filmcritica & Co.).

Cerchiamo di comprendere con maggiore metodo scientifico e minore impressionismo emotivo quel che è successo all'Auditorium Parco della Musica e come è fatto questo oggetto così 'scandaloso', o così poco trasgressivo o dissacrante, che peraltro verrà distribuito nelle sale, dunque affronta il giudizio del pubblico, perché come abbiamo scritto è parte del listino Tucker.

Un'etichetta coraggiosa e originale che ha fatto entrare sul mercato opere che il mercato avrebbe dovuto respingere (e non era così pacifico) e che da sempre un rapporto intellettuale e operativo forte con Marco Mueller (visto che è emanazione del festival asiatico di Udine che  si è occupata per la Mostra di Venezia muelleriana dell'area asiatica).

Zoran, nelle sale in questi giorni, è un perfetto esempio di eccentricità vitale del listino Tucker. Ma pensiamo anche a Departure di Yojiri Takita, Detective Dee di Tsui Hark, Amore carne di Pippo Del Bono, L'estate di Giacomo di Alessandro Comodin, Poetry  capofila di una lunga serie di opere sudcoreane che solo grazie alla Tucker hanno sbriciolato il muro nazionalista eretto contro l'ingresso di opere 'fuori dalle tradizioni culturali europee cristiane...".

Tir è un altro film one man show. Quattro anni di lavoro di scrittura consapevole e immaginaria (con Carlo Arciero, Enrico Vecchi e Branko Zavrsan) e di continue ricerche sul campo. Premio Solinas per la sceneggiatura 2010. Un film che è troppo costruito per essere Ombre di Cassavetes prima versione e troppo poco per essere Ombre seconda versione. Ma che entra bene sotto la pelle del personaggio principale, the one and only, proprio come in Corpi estranei, il road movie interiore di Timi. 

Branko (l'attore Branko Zavrsan di No man's land), ex professore, biondo e palestrato, di Rijeka (Croazia), è diventato camionista per una grande azienda di trasporti italiana che controlla l'intero continente (l'attore ha superato l'esame per la patente). Oggi guadagna tre volte il suo stipendio di insegnante. Ha un compagno di viaggio affiatato, ma nervosamente attratto dal rifiuto del lavoro, ritmi impossibili, un mangiare approssimativo, fa docce improbabili, conoscenze evanascenti, subisce controlli polizieschi ferrei, è controllato a distanza tramite una sorta di bancomat del camionista, ha problemi continui di mobilità, e con la sede centrale,  è costretto a soste forzate e sente attorno l'odio dei colleghi italiani in sciopero, perché l'uso di guidatori stranieri dell'est azzera lotte decennali. Ma vive lontano dalla famiglia. Comunica con la moglie solo tramite ricetrasmittente e cellulare. Finché non gli capita all'improvviso un carico di animali vivi, maiali, che non sa bene come gestire, lui abituato a cose morte....

Sembrerebbe un film descrittivo, e anche vagamente misogino per mancanza assoluta di donne (che, a giudicare dalle telefonate della moglie non si fanno rimpiangere), a differenza, che so, del film argentino Las Acacias di Pablo Giorgelli (uscito nelle sale italiane nell'ottobre scorso), dove un altro camionista, con gli identici problemi esistenziali e lavorativi di Branko, segue una parabola di metamorfosi, grazie a una ragazza madre nativa, che qui è proibita.

Ma i valori pittorici (e acustici) in un film che ha la telecamera digitale quasi perennemente fissa sul guidatore, sono tutto (e anche criticarne il senso stesso). E il rapporto sfondo-superficie li cura lo stesso Fasulo, attento direttore della fotografia. Facile cadere nell'arabesque esornativo semovente, con il luccichio di riflessi cromatici a tavolozza completa che arrivano dagli incroci d'ombre e luci stradali e neon pubblicitari (che fanno la grandezza e la miseria dei road movie hollywoodiani). E qui non mancano i giochi di luce. Ma sono otticamente più spontanei che fantasiosi. 

Quello che colpisce in questo film è il rieemergere di alcune direttive antiartistiche antiche, anni sessanta del secolo scorso: "La problematica artistica che si avvale della composizione, della forma, perde qui ogni valore. Nello spazio totale forma, colore, dimensione, non hanno senso... Composizione di forme, forme nello spazio, profondità spaziale, tutti questi problemi ci sono estranei: una linea si può tracciarla lunghissima all'infinito al di fuori di ogni composizione o di dimensione. Nello spazio totale non esistono dimensioni. Ogni intervento inteso a dare una forma (anche informe) è illegittimo e illogico", scriveva Piero Manzoni. Un camion che avanza ovunque in Europa è una linea lunghissima all'infinito (oltretutto notiamo la mancanza di logo pubblicitario, quasi un non sense nelle intenzionalità documentaristiche. Sembra quasi un pezzo di Repo man di Alex Cox) Non c'è, manzonianamente, espressione poetica in questo film, e per fortuna. 

Non si decrive il comportamento di un personaggio e della sua intenzionalità esistenziale o pseudospontaneità costruita a tavolino, niente capricci, idiosincrasie, decisioni casuali o arbitrarie...Il minimalismo della situazione (un camionista in viaggio, sue origini e conseguenze) esige un controllo piuttosto rigoroso, ferreo, scientifico, però, del progetto appercettivo. E per spazio totale intendiamo spaesamente e interpretazioni proiettive dello spettatore sul piano della realtà, della vita. 

In queste immagini si devono, si possono vedere volti, figure, animali, azioni o situazioni là dove la casualità sia pure intenzionata del regista, non potrebbe certamente averli previsti. Insomma il piacere in questo film o è criptomantico o non è.  
Come se le situazioni, gli eventi scelti fossero il risultato di "algoritmi di sorteggio” con alla base “strutture geometriche irregolari”, corridoi, coni, tondi, prismi, sferoidi, in presenza delle quali l’osservatore scatenerà il proprio “mondo immaginario”, integrando con sue personali ipotesi di lettura quel processo della percezione che interpreta la realtà sulla base, appunto, di “ipotesi” successive. 

E' in gioco una stimolazione della retina speciale in queste inquadrature stocastiche (cioè aleatorie, ma prevedibili statisticamente), camion sfondo, vetro retrovisore, strada, inquadratura stocastica in bianco e nero (selciato, riga bianca, 45 poi venti poi sette...) inqudratura stocastica a colori (i cinquanta gradi di beige e grigio dell'abitacolo). 

Ciò è dovuto, direbbe Sergio Lombardo, uno dei nostri più grandi artisti della neoavanguardia annni sessanta, fondatore della corrente eventualista, "all'uso preponderante della visione parafoveale, basata sui bastoncelli, le cellule della retina capaci di reagire soprattutto ai gradienti di luce e ombre. I bastoncelli si trovano specialmente alla periferia  della retina e sono preposti all'interpretazione degli sfondi, di sagome senza profondità e senza volume. Inoltre l'interpretazione dello sfondo è legata alla visione notturna, più emotiva e arcaica, ma meno analitica. Infatti anche durante la visione floveale, analitica e consapevole, la visione parafoveale mantiene un ruolo complementare d'interpretazione inconscia che contribuisce alla formazione dei "residui diurni"
influenzando direttamente i sogni ed altri eventuali episodi allucinatori" (Sergio Lombardo, L'avanguardia difficile, 2004 Lithos editore, Roma). Insomma i critpomanti di uttto il mondo hanno gradito il film. Critici, ancora uno sforzo per diventare criptomanti. Visionari. Se non approfittiamo di questi film non ci capiterà più.

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