giovedì 24 aprile 2014

La storia del cinema palestinese (4). La Nakba, l'espulsione dei palestinesi dalle loro case nel 1948. Un film di Yursy Nasrallah, egiziano







di Roberto Silvestri



LA PORTA DEL CIELO

BAB EL SHAMS

Yousry Nasrallah, Egitto 2004

Yusry Nasrallah (a destra)
Se neppure Michael Moore ha osato mettere in mezzo Israele/Sharon, ditta d'appalto centrale (e molto mercenaria) nell'attuale strategia politica e petrolifera di Bush jr. in Medioriente, ha avuto questo coraggio l'egiziano Yusry Nasrallah, esponente di punta della «nuova onda araba» (nessuno la conosce in Italia), mai dogmatica nel pensiero e libertaria nelle immagini e dunque mal vista da chi controlla tutte le fonti d'immaginario e ci assicura che, Tel Aviv a parte, tutto il resto è integralismo antisemita.
Ma Nasrallah ha fabbricato un film che parte dalla Nakba, dalla catastrofe, cioé dalla espulsione dei palestinesi dalle loro case e dai loro villaggi nel 1948, che ha il piacere e il dolore del racconto, che non ha paura della vita, che sconcerta, che non giudica nessun terrorista, neanche nemico, a priori. E’ più lungo di quattro ore (esattamente 4 ore e 48 minuti) ed è tratto dal best seller storico-poetico del libanese di origine palestinese Elias Koury, La porte du Soleil.

Il regista (a sinistra) e l'autore del romanzo, il libanese Elias Khoury
L'opera, bellissima è stilisticamente duplice, metà meló egiziano, metà moderno dramma alla libanese, costruito come le storie dentro le storie di Le mille e una notte. Ci spiega 50 anni di lotte, speranze, amori, tragedie, eccidi, umiliazioni, vittorie perfino, e utopie indistruttibili. Se ci fossero tv come si deve sarebbe roba ghiotta. Perché il suo formato non è ortodosso, l’opera non è televisiva come La meglio gioventù, piuttosto è un Novecento 1 e 2.

Yusry Nasrallah
Film epico e caleidoscopico, per i punti di visti espressi, non dimentica nessuna delle generazioni che sono state protagoniste obbligate, dal 1946 ad oggi, della tragedia palestinese. Il vecchio sceicco cieco Ibrahim, l'insegnante coranico pio fino al fanatismo ma anche coltissimo e dolce, esegeta di Saladino e Nasser, e depositario di un segreto. Sa dove è quel luogo, inaccessibile perfino a Sharon, nascosto da una grotta dove vive e prospera, fiorita, tutta intera la Palestina multietnica e polireligiosa... E poi sua figlia Nahila, che è già indocile al suo ruolo di sposa obbligata dodicenne, e vuole negli anni `50 del rock'n'roll imitare invece le simpatiche maschiette del kibbutz, e terrà testa infatti alle torture dei soldati occupanti, con il coraggio e con l'astuzia. Due personaggi che ci raccontano dei palestinesi fleur d'ajonc, gli indistruttibili, che pure spintonati e decimati e che si sono visti l'acqua rubata, gli alberi d'olivo sradicati, i villaggi interi cancellati (circa 500) dalla cartina geografica (ce ne daranno mai una mappa, o tremano i cartografi di Tel Aviv?), i vestiti requisiti e ordinati secondo quella certa logica aberrante ereditata controvoglia dai nemici del nemico inglese... Eppure sono rimasti sempre, sono lì, attanagliati alla terra. Finché non li uccideranno tutti tutti tutti. Due paesi due nazioni. Una sottoterra, però.

Lo scrittore libanese Elias Khoury
E poi la diaspora. Il marito di Nahila, Younes, che diventerà il simbolo stesso del partigiano mobile e invincibile (sempre al di qua e al di là del confine, sempre rocambolescamente tra le braccia della moglie, a far figli lasciando di sasso i servizi segreti, che col sasso si vendicheranno di un suo piccolo rampollo); le sue imprese di guerra ma anche i suoi gesti di pietà (un attentato incompiuto perché i bambini allora non si uccidevano); e il «dottor Khalil», abbandonato dalla madre nel disordine della fuga e poi a Beirut, vivo per miracolo a Sabra e Chatila, insomma i simboli plausibili di coloro che sono costretti alla deriva e all'approssimativo approdo.

Elias Khoury
Younes, all'inizio del film, è in coma e viene soccorso nella Beirut dell'84, proprio dal medico (o forse è solo un infermiere abile nella sopravvivenza?) che ama una guerrigliera di Habbash, Chams, dal passato atroce (un marito sadico) e che poi gli stessi compagni d'arme giustizieranno per un delitto passionale che lei compie contro l'altro suo amante combattente... La prima parte, a flashback intrecciati come un paniere mediterraneo, racconta le gesta dell'eroico Younes che, dall'età di 16 anni è costretto a prendere le armi, prima contro gli inglesi e poi contro gli israeliani, perché diventa sempre più clandestino nel proprio paese, nel proprio villaggio, tra i propri ulivi, nel proprio campo profughi di Beirut. Nella seconda parte del film, più libera e a fraseggio più sconcertante, il film diventa misterioso e a sviluppo «vegetale». E appare perfino Beatrice Dalle, in una Beirut post-bellica dove si prepara la messa in scena di un bellissimo Genet sull'eccidio di Sabra e Chatila. Il film, dopo l'anteprima mondiale a Cannes fuori concorso, e il solito giro mondiale dei festival che ha sempre contraddistinto le opere di Nasrallah, è stato distribuito in Egitto dalla Misr di Chahine in sole tre copie e durante una delle feste religiose più importanti del calendario islamico che generalmente richiudono le famiglie in casa, a guardare soap operas e serie tv. Nasrallah e Chahine, dopo l'insuccesso commerciale del film hanno raffreddato molto la loro amicizia e relazione artistica. Ma questo è stato affermato dalla stampa israeliana, che evidentemente non conosce i problemi distributivi dell'Egitto, controllato scientificamente (e non solo a livello cinematografico) dai monopoli nordamericani.  

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