sabato 7 febbraio 2015

Assia Djebar e André P. Brink. Libri e film fatti ai bordi delle strade, tra la polvere


La Nouba des femmes du Mont Chenoua di Assia Djebar


Roberto Silvestri

Quando un sogno si avvera, per esempio una Algeria e un Sudrafrica liberi e senza più schiavi e padroni, cosa succederà ai vecchi incubi? Riscrivere il passato alla luce di un “nuovo presente” non è sempre essere un’operazione solo eccitante e celebrativa perché i sottofondi oscuri e sinistri di secolari repressioni riemergono nella memoria e sottopelle nella società…E non hanno solo la veste squadristica del Fis o dei nostalgici della destra boera.
André P. Brink
Oggi, funesta giornata, abbiamo perduto due artisti e due combattenti per l’eguaglianza e per la libertà (di tutti) che hanno dato forma smagliante anche a questi fantasmi e a questi spettri. Gli scrittori André P. Brink, sudafricano bianco che ha lottato contro l’apartheid boero-nazista per tutta la vita e ci ha lasciato romanzi, scritti sia in inglese che in afrikaan, come Un’arida stagione bianca, pubblicato in Italia da Frassinelli nel 1989, e diventato proprio nel 1989 un combattivo film diretto da Euzhan Palcy. E Assia Djebar, scrittrice e prima cineasta algerina della storia.Autrice di due capolavori, La nouba e al-Zerda. Impegnata negli anni 70 e 80 nella costruzione di una Algeria democratica e poi diventata oppositrice politica irriducibile e esule. Avevano entrambi, stranamente, 79 anni.
Drammaturgo e romanziere, insegnante all’università inglese di Capetown, Brink nato il 29 maggio del 1935 a Vrede in Transvaal, ha scritto 11 romanzi, tra i quali La prima vi
ta di Adamastar (Instar Libri, 1994) e La polvere dei sogni (Feltrinelli, 1997) . Per il cinema ha composto anche i dialoghi di ‘n sonneblon uit Parys, e di Somer, diretti nel 1974 e nel 1975 da Sias Odendaal, preparato la sceneggiatura di Kootje Emmer (1977) regia di Koos Roets e di Nicolene (1978) di Marie du Toit e Franz Marx. Ha partecipato come testimonial al documentario militante In Darkest Hollywood: cinema and apartheid (1978) di Peter Davies e David Riesenfeld, assieme ai politici, ai cineasti e agli artisti più impegnati nello smantellamento delle leggi razziste di Pretoria: Nelson Mandela, Lionel Ngakane, il decano dei cineasti sudafricani neri; lo scrittore Lewis Nkosi; il dramamturgo e romanziere Athol Fugard, la cineasta antillana Euzhan Palcy, il cineasta Ross Devenish e Bono.

Punti di riferimento il primo della cultura panafricana transetnica e la seconda di quella araba e postaraba, sono stati scrittori innovatori dal punto di vista del linguaggio. Assia Djebar, in più, è stata una cineasta rivoluzionaria, che ha aperto la strada, assieme a Haile Gerima, al sentiero più fecondo del “terzo cinema” africano, quello che mette in scena il fuori scena, affida al coraggioso monologo interiore, alla prima persona singolare e responsabile, lo strumento conoscitivo per la microanalisi ‘scientifica’ dei problemi e delle malattie sociali e ha trovato in John Akomfrah, Jean Marie Teno, Isaac Julien, Nacer Khemir e Abderramane Sissako i suoi allievi più conseguenti.  
  
Fare film ossessionati dal tempo e che abbiano il ritmo della memoria…. Eppure il cinema non è un’arte che, come la letteratura e come la musica, sappia sfidare l’eternità…. Non è così longevo. “Non è qualcosa - diceva Djebar - che vedi maturare davanti a te”. Eppure con il cinema si riesce a viaggiare fisicamente nello spazio. Esperienza spazio-temporale che è negata alla scrittura. La letteratura permette maggiore libertà nella caratterizzazione dei personaggi. Ma il paesaggio non è mai palpabile come al cinema. Attraversare i siti della rimembranza, cucire, come in un monologo, i ricordi della nonna, che si perdono lontani nel tempo, e rievocano condottieri mitici e ancestrali imprese, con i flash back sui conflitti più recenti, magari domestici ma non meno drammatici, quelli della cruenta lotta di liberazione di un popolo ma anche di un sesso, e di un individuo. Ecco la voce registrata delle donne anziane che raccontano, questo il primo strato del film. “Il corpo femminile, le donne sono il mio materiale, come il marmo per lo scultore”. La struttura ossea. Poi vengono le immagini e lo spazio. Occupare lo spazio è il problema numero uno della donna algerina. “Voglio ridare equilibrio alla donna”. A costo di tenere gli uomini fuori campo. Perché se si torna bene indietro, dentro le proprie radici e tradizioni, si scoprirà che la tradizione è sempre bisexual e  biforcuta, fatta di scontro tra idee nuove e idee vecchie, nuove libertà e antiche sottomissioni…Ed è sporcata dai vittoriosi tronfi. Bisogna aguzzar le orecchie. Sentire bene quelle “voci che ti accerchiano” e a cui bisogna dare nobiltà di immagine. Non sequenze belle, leccate, vere, giuste. Ma giusto immagini. Come la donna ottantenne che apre La Nouba, felice di raccontare storie nel suo giardino-cucina, che ritrova il suo equilibrio. Le ragazzine che vanno ascuola coi loro zainetti in una regione dove possono studiare solo fino a 14 anni. E donne che hanno la libertà di attraversare la strada libere, sfidando lo sguardo da cacreciere degli uomini…Assia immagina un’altra Algeria. Ma vede quella che c’è. Sedendosi ai bordi delle strade periferiche, tra la polvere. 

Assia Djebar
Isou, Debord, prima di lei avevano creato analoghe immersioni spregiudicate e prepotenti nello spazio e nel tempo della storia. Eppure in questi altri due capolavori sconosciuti del cinema, diretti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, La nouba e al-Zerda,  l’eco della sofferenza e delle sconfitte secolari, l’impasto tra passato e presente e soprattutto una attenzione assai poco snob verso le conversazione ‘qualunque’, imperfette e insignificanti, e verso i destini dell’insuccesso e dell’impotenza fertile, formano uno spesso strato formale, come una torta salata cucinata con spezie davvero particolari e insostenibili. La cuoca è algerina. Si chiama Assia Djebar. I cinephiles di Algeri la riempirono di insulti, all’anteprima in patria. Il ‘realismo socialista’ e il suo ottimismo di cartapesta, non tollerano fragilità, dubbi, inquietudini. Già l’autoanalisi, figuriamoci poi se sessuata, viene considerata blasfema, anticipando gli anatemi islamisti con la fraseologia marxista-leninista. Ma la Fipresci a Venezia le dette un premio prestigioso. Quando Antonello Catacchio, reporter del manifesto,  vide il film al Lido, per primo, in Italia, ne fu folgorato….
Ma torniamo indietro nel tempo.

Alla fine degli anni settanta quando le istituzioni pubbliche europee furono schiacciate dalle femministe in movimento e costrette, da rapporti di forza altamente sfavorevoli, a dare conto dell’insorgenza culturale delle donne, si iniziò a scoperchiare un grande rimosso. Rimozione pericolosa a giudicare da quel che urlano le squadracce, molto ambigue, di alQuaeda e dell’Isis. Ma.
La storia della musica, delle altre arti, della filosofia, delle scienze e del cinema (che della “storia delle storie” è il motorino di avviamento), non era quella che ci avevano raccontato. Bisognava riscriverle tutte. Rimettere a posto i valori. Capovolgere le gerarchie.
Quella lunga marcia nella “memoria offuscata e scippata” affiancò una grande rivoluzione politica e sociale transnazionale, che verificò i poteri tra i sessi e mise in discussione il sesso strapotente (quello che oggi con tanto di barba lunga riparte all’arrembaggio, armoato per il momento solo nelle lontane province) e le identità sessuali in generale. Divorzio, aborto, parità salariale, soggettività desiderante autonoma, e tanto altro furono conquiste o riconquiste imposte da quel possente uragano femminista.
Il cinema occidentale ne fu letteralmente capovolto.
Alle origini di Hollywood, lo scoprì la rivista nordamericana Women & Film, c’erano state decine di registe del muto, ex suffraggette drastiche, completamente cancellate da Sadoul & Company. Senza Alice Guy , e non solo senza Artaud, il surrealismo e il dadaismo non avrebbero captato con altrettanto charme l’invisibile nella visione del primo cinema francese.  Cervello dell’underground americano, nell’immediato secondo dopoguerra, era stata una rivoluzionaria ucraina esule dall’Urss, Maya Deren. Alle scaturigini del neorealismo italiano – oggi è una ovvietà – ecco  i melodrammi di strada della napoletana Elvira Notari (che l’aveva anticipato un bel po’ e che era stata fermata, non a caso, dal Duce, a lungo il burattino della Serpieri, prima che peggiorasse… nel 1936). Shirley Clarke aveva anticipato negli anni 60 del secolo scorso il documentarismo “di profondità” e in soggettiva che tanto fa tendenza oggi. Senza Dorothy Arzner insegnante all’Ucla niente Francis Ford Coppola… E così via.
A Saint Vincent, quando, finanziate dall’Unesco, si svolse all’inizio degli anni ottanta uno dei primi summit di cineaste provenienti da tutto il mondo poi, si scoprì che non solo bisognava fare i conti con il contributo artistico di tante donne-chiave, ma che bisognava sbarazzarsi anche da ogni eurocentrismo. Scoprimmo, tra Mai Zetterling e Anna Karina, Chantal Ackermann e Liliana Cavani, che era stata Sara Gomez a lanciare il ‘nuovo cinema cubano’ rivoluzionario. E poi via via Safy Faye, che ci raccontò due o tre cose della cultura contadina senegalese illuminanti; Sarah Maldoror, che aveva combattuto con la cinepresa contro il colonialismo portoghese, pur essendo antillana.
E, bellissima e affascinante, Assia Djebar, la scrittrice e cineasta algerina di lingua francese, berbera e araba, che aveva appena vinto, nel 1979, un premio a Venezia. E’ morta ieri, Assia. In esilio, in Francia. Era nata a Cherchell il 30 giugno 1936. Nella regione di Tipaza. Si chiamava in realtà Fatima Zoha Imalayène. Suo padre era un maestro elementare e la mandò a terminare gli studi in Francia allo scoppio della guerra di indipendenza, nel 1954. Fu la prima donna proveniente da una colonia a diplomarsi all’Ecole Supérieure di Sevres. La prima sceneggiatrice algerina. La prima regista di cinema. La prima docente universitaria in storia e letteratura (a Rabat) e la prima donna araba a ricevere, nel 2000, il prestigioso Peace Prize of the German Book, e molte altre onorificenze internazionali.  Djebar ha pubblicato 4 romanzi tra il 1957 e il 1967. Il cinema rappresentò una soluzione artistica alla sua crisi letteraria. Un “blocco” del tutto comprensibile. Molti altri scrittori, e tra questi il padre del cinema africano Sembene Ousmane, avevano teorizzato quel passaggio inevitabile. Se si scrive in primo luogo per i connazionali, non si può ignorare che se la stragrande maggioranza di loro non sa leggere e bisogna esprimersi in altro modo. Con le immagini. E le immagini fanno molto più male (e bene). Le minacce integraliste arrivano infatti a Assia solo dopo i suoi due film, La nouba delle donne di Monte Chenoua (1978) e al-Zerda e il canto dell’obio (1982) e dopo il successo mondiale che ottengono nei festival di tutto il mondo (comprovato da premi e indici di ascolto record nelle tv non subumane d’Europa). Dopo dieci anni di non pubblicazioni, di teatro (scrive un dramma, fa Café-chantant, si occupa di scenografia e di sound, adatta testi, insegna anche teoria del cinema alla facoltà di lettere…) e di “ritorno a casa”, di lunghi viaggi, di incontri con contadini e paesani di differenti culture, di investigazioni accurate, di riappropriazione della cultura ‘silenziosa’ delle donne nella sua terra di origine, con la cinepresa al fianco e di blocco totale nella scrittura, il suo linguaggio letterario si farà più libero e creativo. Parlerà e scriverà in prima persona singolare femminista post-araba. Nel 2005 è il primo cittadino nato in nord Africa da genitori nordafricani a essere eletta membro dell’Academie Francaise.  
La Nouba, prodotto dalla Radiotelevisione algerina, racconta il ritorno a casa, in terra berbera, di un giovane architetto parigino, Liala, con la figlia e il marito. Le storie del villaggio, raccontate dalle anziane, rievocano conflitti antichissimi, durissimi e modernissimi, sia contro i colonialisti (sia arabi che europei) sia contro generazioni e generazioni di mariti. Djebar racconta la lavorazione del film nel suo romanzo Vast est la prison.   La Nouba è una grotta dove si celebrano riti propiziatori secolari in onore di una regina antichissima, Kahina, in cui nome significa “profetessa ispirata”.  
Al-Zerda  è un documentario basato sui materiali di repertorio dell’epoca coloniale che vanno dal 1912 al 1942. Non c’è voce fuori campo. E le immagini del Maghreb intero (Algeria, Tunisia e Marocco) scelte assieme a Malek Alloula, dopo 5 mesi di lavoro,  non hanno il compito di ricostruire la “storia” della colonizzazione e i suoi orrori. Sono piuttosto scene della vita di tutti i giorni. Il progetto poi sfumato, finanziato dalla tv algerina, era farne una serie in dieci parti. Alla fine si è potuto realizzare solo un montaggio di un’ora. I materiali provengono dagli archivi della Gaumont, Pathé e Ina. Anche se quello che vediamo – il procedimento è quello del rimontaggio dei materiali operato da Gianikian e Ricci Lucchi -  è il capovolgimento della prospettiva colonialista. Zerda è una parola vernacolare che designa una festa popolare. 
   






La Nouba des femmes du Mont Chenoua


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