mercoledì 20 maggio 2015

"Mountains May Depart", Jia Zhang-Ke muove le montagne. E Jonas Carpignano il Mediterraneo


Mediterranea di Jonas Carpignano


Mariuccia Ciotta

Cannes

Posti in piedi alla prima di Mediterranea nella sala della Semaine de la critique, dove il regista Jonas Carpignano, trentenne italo-african-american, madre originaria delle Barbados e padre ex pot op, tra i più lucidi teorici marxisti dell'ultima generazione, è stato accolto, insieme ai due protagonisti, da un'ovazione preventiva. I suoi cortometraggi hanno raccolto premi a Venezia e a Cannes, e ora l'esordio nel formato lungo, sempre sullo stesso tema, l'emigrazione. Al centro, Rosarno in Calabria, già indagato in Chjàna, il corto sviluppato in questa narrazione della realtà, l'altra faccia delle immagini tg con le masse stipate in quei barconi che troppi in Italia vorrebbero affondare a cannonate. Gente senza nome, finalmente persone nel film ad alta tensione, ritmo serrato, niente pietismo nella storia di due amici provenienti dal “paese di uomini liberi e fieri” , il Burkina Faso, laboratorio di democrazia nell'epoca Sankara, e ora tornato vivibile dopo la recente rivoluzione che ha cacciato il dittatore (e assassino) Compaoré. Strano a dirsi, ma proprio adesso la Hollywood Foreign Press (i potenti corrispondenti stranieri che assegnano i Golden Globes) ha intenzione di cancellare dal suo carnet di festival “indispensabili” proprio il Fespaco, preziosa rassegna di cinema africano a Ouagadougu. Qualcuno li informi che quell'Africa non è solo ebola e Boko Haram,

L'Inter come Mito africano
Ayiva viene da lì insieme all'amico Abas, e il film ne segue il viaggio attraverso il deserto, a piedi, sotto il sole e il gelo della notte, ombre in cammino verso la Libia. Saranno aggrediti da uno squadrone di uomini armati prima di approdare sulla costa e imbarcarsi sul gommone pericolante, che nessuno vuol guidare (a proposito di scafisti “trafficanti di schiavi”). Si presterà Ayiva, “ma in Burkina non c'è il mare”, e che importa, si va.

Brucia Rosarno brucia
Carpignano non spreca fotogrammi, fiancheggia i due, gli sta addosso fino a Rosarno nei campi di arance. Attenti a tagliare corto il gambo, altrimenti buca i frutti nella cassetta, e non ti pagano la giornata, anche se il “padrone” è un tipo benevolo e invita Ayiva, un “gran lavoratore” a casa sua, dove la figlioletta dispettosa punzecchia il burkinabé, “ma anche tua figlia è nera?”. Già, la piccola di sette anni che balla in diretta skipe... Il padre cercherà invano di ottenere un permesso di soggiorno, il compassionevole datore di lavoro glielo nega e dà lezioni ad Ayiva, suo nonno emigrò negli Usa e fece fortuna grazie alla “famiglia”, ma i good fellas nella baraccapoli degli emigrati africani non ci sono.

A Rosarno invece sì. Siamo dentro Distretto 13, le brigate della morte, la tensione lievita intorno alla comunità nera, auto di grossa cilindrata tentano di investire il gruppo che torna dal lavoro, i giovani del paese si presentano minacciosi alle loro feste danzanti, infastidiscono le donne... L'unica è “mamma Africa”, una signora anziana della Caritas che li accoglie, ma la 'ndrangheta scatenerà la “caccia l'immigrato”, fuoco ai rifugi, pestaggi, pallottole ad aria compressa. Due moriranno, accadde nel 2010. E ci voleva uno sguardo newyorkese per inquadrare la rivolta di Rosarno, la ribellione degli immigrati, la furia di Ayiva che vede il suo compagno a terra sanguinante. Auto incendiate, vetrine infrante, Jonas racconta in un flusso d'immagini essenziali, avvolgenti il suo “documentario” emozionale. Mediterranea promette un cinema italiano oltre i confini, tempestato di linguaggi incrociati, un cinema ibrido e internazionale.

Jia Zhang-Ke in Mountains May Depart
In concorso, Mountains May Depart, atteso titolo di Jia Zhang-Ke, Leone d'oro a Venezia (dove aveva già presentato Platform) con Still Life (2006), regista quarantenne in cima alla lista della nuova generazione cinese. Il film è arrivato all'ultimo momento, fresco di montaggio e con qualche problema tecnico (la proiezione si è interrotta un paio di volte), ma, accolto con entusiasmo, è tra i favoriti per la Palma d'oro.

Jia Zhang-Ke ha affilato la sua poetica nel documentario, tema dominante la Cina in via di trasformazione. Addio al sapore di un'antica cultura (e dei ravioli al vapore), all'infanzia che ha radici nella piccola città di Fenyang, nella provincia centrale di Shanxi, dov'è nato e vissuto il regista. Il film si apre nel 1999 con il vortice chiassoso di un balletto di ragazzi a ritmo di Go West dei Pop Shop Boys, cult da discoteca in quegli anni, ed esibisce il formato stretto della prima cinepresa digitale di Jia Zhank-Ke, una serie di “appunti” che col passare del tempo, non solo cinematografico, si allargano nel cinemascope, fino al fantamondo del 2025, ripreso con l'Arriflex Alexa. Un percorso spazio-temporale che stringe il presente tra memoria e preveggenza e si materializza nel corpo di Tao (Zhao Tao, moglie del regista e attrice in molti suoi film) divisa tra due amici di sempre, il presuntuoso e rampante Zhang, padrone di una stazione di servizio e deciso a far soldi, e Lianzi, gentile e dimesso minatore. Sceglierà il peggiore, perché “i nostri modi di vivere sono stati sconvolti con l'irruzione del denaro al centro di tutto”. Tanto che Zhang chiamerà il suo bambino Dollar, e lo spedirà appena possibile, dopo il divorzio con Tao, in Australia, più lontano geo-emotivamente possibile dalla Cina, un luogo simbolo dell'emigrante incapace di parlare l'inglese e di dialogare con i figli.

Materiali misti, reali e immaginari, che viaggiano metaforicamente su auto (lussuosa e rossa quella di Zhang), treni, aerei, e oggetti domestici primitivi accanto a schermi e cellulari ultrapiatti, trasparenti... il passaggio da “com'eravamo” a come “come saremo”, Mountain May Depart già nel titolo indica il traguardo. Quello originale vuol dire “i vecchi amici sono come le montagne e i fiumi, immutabili”, paesaggi di riferimento. Traduzione dall'inglese, “le montagne possono andarsene”, e si vede. In ogni inquadratura, sullo sfondo, campeggiano gru monumentali sospese su grattacieli in costruzione, note allarmanti nello skyline cinese, giganti che incombono sulle casette malferme, le botteghe di artigianato, i mercati, i prati di Fenyang.

Se con Touch of Sin (in gara a Cannes 2013) il regista ha scritto un diario in nero del paese, film a episodi di vita spietata, qui lievita l'angoscia, un sommesso, crescente malessere che fa svaporare l'allegria di fine Novecento e si dispiega nella storia di Tao, sempre più disillusa. Perderà il padre, scrigno di memoria, e anche il figlio se ne andrà così lontano da dimenticare il nome della madre.

Il film divaga all'inizio, concentrato sugli “appunti” storici di Jia Zhang-Ke, quasi un prologo, un memorandum, ma poi le immagini si incollano virando dal caldo dei ricordi all'azzurro cristallino dell'oceano e dei monitor. Esistenza rarefatta per Dollar che tiene appese al collo le chiavi di casa, dono di Tao quand'era bambino. “Sono un figlio della provetta” dirà alla maestra cinese cinquantenne che gli insegna la lingua d'origine, anche lei apolide, risvegliata bruscamente dal sogno occidentale, causa ex marito australiano gretto e insensibile, e con la quale avrà un'esperienza “incestuosa”. Insieme proveranno a tornare indietro. Ma la casa di Jia Zhang-Ke non ha un indirizzo solo cinese, è la casa dentro, lo spazio interiore di ognuno, è quella montagna e quel fiume che non dovrebbero andarsene.

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