domenica 28 febbraio 2016

Good Kill. La guerra in forma malinconica


Ethan Hawke
Mariuccia Ciotta

“Siamo i migliori addestratori di talebani” è la battuta chiave di Good Kill proveniente dal concorso di Venezia 2015, dove è stato accolto da fischi e applausi, platea divisa in due, ammirazione e disgusto per il film sulla “guerra dei droni” diretto da Andrew Niccol, grande sceneggiatore, premiato per lo script di The Truman Show. La reazione contrastante probabilmente è dovuta al falso piano che sovrappone il nostro “eroe”, Tommy Egan (Ethan Hawke), alla “voce narrante”, il regista, mosso dalle migliori intenzioni: denunciare il “programma speciale” del Pentagono.
Nevada. I tormenti del maggiore Egan che sgancia bombe a distanza sull'Afghanistan, seduto nel suo studio fresco di aria condizionata, disegnano sulla faccia di Hawke una nube grigia per i 100 minuti del film, l'espressione di un soldato in crisi morale ubbidiente a ordini ingiusti, colpire dall'iperspazio “obiettivi mirati” dagli effetti collaterali inevitabili, le vittime civili.
Tommy Egan, ex pilota di F16, amante nostalgico del volo, schiaccia il pulsante della sua play-station mortale in stato di semi-catatonia, ubriaco di vodka e di sensi di colpa, e poi torna nella casetta a schiera, piantata nel deserto, a due passi da Las Vegas, la rutilante città dell'azzardo che testimonia “la fine della civiltà”, un affastellamento di hotel tematici, da Parigi alle Piramidi, un mondo disconnesso dalla realtà come i giocatori di droni. E che Niccol riprende, gigantesca e tetra, spettrale nelle sue luci abbaglianti in alternanza alle inquadrature gialle di un altro deserto, immagini virtuali da bombardare con missili reali.

“Good Kill”, bel colpo, commentano i commilitoni di Egan quando fanno centro e le abitazioni del nemico esplodono in una nuvola di terra e fumo. Eppure, anche loro, capitano compreso, soffrono ad ammazzare fuori campo, e a parte un paio di “mastini” incalliti piangono se una donna o un bambino finiscono in pezzi. Tommy Egan più di tutti, ed è così assente in famiglia - suo figlio lo imita a colpi di joystick – che la moglie, una ex ballerina di Las Vegas biondissima e sexy (January Jones) lo lascerà per andarsene a Reno, la capitale del divorzio. Solidale con lui, una bruna soldatessa latina dal cuore tenero, miss Suarez, che non pensava di finire così davanti al monitor a centrare auto e cortili, mercati e funerali. Già, perché ad alzare la temperatura arriva la Cia, più spietata dell'Air Force, e ordina “l'intervento aggiuntivo” ovvero il bombardamento dei soccorritori accorsi sul luogo del disastro e le incursioni dei droni anche in paesi, come lo Yemen, non in stato di conflitto aperto con gli Usa. “Questi si chiamano crimini di guerra. – commenta la soldatessa - Siamo diventati come Hamas”. 

Ed è a questo punto che partono i fischi. Cosa ci sta raccontando Andrew Niccol, che la guerra dei droni è ingiusta mentre quella degli F16 che sganciano bombe sui villaggi afghani invece sì? Tommy Egan sogna infatti di tornare a sorvolare i cieli perché adesso si sente un “codardo” quando prima rischiava la vita, come se allora, in Iraq o in Medio Oriente, la battaglia fosse alla pari. “Finché loro non si fermano, noi non possiamo fermarci, pensate all'11 settembre” sentenzia il capo squadra. Ma. Il regista non ha a cuore “come ogni cittadino americano” la salvaguardia dell'America a tutti i costi. Andrew Niccol, che ha sempre indicato nei suoi film l'utilizzo di tecnologie “disumane” - dall'esordio Gattaca a S1mOne e a In Time - è neozelandese.
In Good Kill dice le certezze e i dubbi di un insider a stelle e strisce. E la mostruosità etica dei cacciatori alla consolle, sulla scia delle proteste dilaganti - anche statunitensi - sull'uso dei droni a fini militari.
Dispiegato nella montante schizofrenia del protagonista che ormai fuori di sé lancia un missile “privato” contro uno talebano stupratore seriale, il film, al quale il Dipartimento sicurezza americano ha rifiutato la consulenza, è un potente “j'accuse” contro la pratica degli aerei fantasma. Good Kill, che entra nelle stanze chiuse dei bottoni letali e svela il ruolo della Cia, ufficialmente negato, nella missione Falco, è un intenso, sconvolgente affondo sulla guerra in forma malinconica, quanto sanguinario e travolgente è Nobi di Tsukamoto e disperante il documentario di Oppenheimer, The Look of Silence, sui killer viventi ed esultanti dell'Indonesia di Suharto.

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