giovedì 28 aprile 2016

Gus Van Sant. Bello e dannato

Prove di risarcimento dalla Francia per Gus Van Sant, massacrato l'anno scorso a Cannes con il suo The Sea of Trees che finalmente esce nelle sale italiane (e francesi) con il titolo La foresta dei sogni. Il coro dei “buu” dei festivalieri contro un film splendidamente imperfetto, dalla sceneggiatura schizofrenica, eppure incantevole, si è trasformato in “un'occasione (quasi) perduta” sulle pagine di Le Monde il quale nota la crudeltà con cui è stato accolto il film “abbondantemente fischiato durante la proiezione, il film è stato poi travolto dalla critica con una tenacia e una furia di rara potenza criminale”. Il quotidiano francese non salva The Sea of Trees, “un anno dopo, ci piacerebbe catalogarlo tra il mal giudicati – scrive – ma nessun miracolo... anche se, secondo noi, il film non è privo di qualità. L'errore principale, nei nostri ricordi, è quello di indicare nella prima parte il bellissimo film che avrebbe potuto essere”. E' già qualcosa. Un fotogramma di The Sea of Trees vale più o meno l'intero cartellone di Cannes 2015.
Intanto la Cinémathèque française dedica al cineasta “proteiforme” un'ampia mostra/retrospettiva “Gus Vant Sant- Icone” (13 aprile-31 giugno) dove, oltre ai film, si vedranno le sue fotografie, i lavori sperimentali, le serie tv (la politica Boss), oggetti, set, disegni, fantasmi (River Phoenix, Kurt Cobain...) e feticci vari.



Mariuccia Ciotta
Cannes 2015

Cielo nero per Gus Van Sant, accolto da un'ondata di “buu” che ha sommerso i flebili battimani al termine di The Sea of Trees. Indipendente, autore totale, il cineasta americano è sempre urticante nella sua ricognizione sui teenager, dall'esordio Malanoche passando per My Own Private Idaho, Elephant (Palma d'oro), Last Days, Paranoid Park fino a Restless (2011) che diffonde odore di morte in The Sea of Trees, uno dei pochi film “adulti” di Van Sant, insieme a Milk e a Promised Land. Là due adolescenti, appassionati di funerali, di fronte al confine tra esserci e non esserci più, la vita come una malattia da curare con ogni mezzo necessario, qui due uomini persi nel limbo di Aokigahara, ai piedi del monte Fujii.

  Il film prosciuga la narrazione e stringe l'inquadratura sulla questione che sta più a cuore al regista, l'esistenza impalpabile e sfuggente che neppure il professore di fisica Arthur Brennan (Matthew McConaughey) riesce a decifrare nella sua lavagna di algoritmi, qualcosa che chiede al cinema di scovare, dare forma, rendere visibile. Qualcosa di condiviso tra Mia Madre e The Sea of Trees, tutti e due indagatori della zona tra aldiqua e aldilà, esaltanti antidoti del lutto.

Un uomo solo, corpo in campo radiografato in primissimi piani a coglierne il passaggio emotivo, tanto che la storia (scritta da Chris Sparling) resta sfocata, espediente per arrivare nel “luogo ideale dove morire”, il mare di alberi di Aokigahara, vista in “cartolina” dall'alto perché il Giappone ha negato il set del “suicidio perfetto” ( e Van Sant se n'è andato in Massachusetts).

Arthur Brennan ha consultato Internet e deciso di partire per Tokyo con un flacone di sonniferi, sua moglie Joan (Naomi Watts) è morta, ma non per questo vuole andarsene dal mondo. Solo che ha sprecato un'immensa occasione, come il fantasma kamikaze di Restless che dimenticò di consegnare una lettera d'amore. E perso il tempo di vivere, dilapidato i giorni nella banalità di gesti e parole, come un film che fa spettacolo e (non) accumula fotogrammi incerti. Sarà la foresta a battere il tempo e a dare senso alla storia di Arthur Brennan.

Cadaveri semi-mummificati, scheletri, corpi appesi nel buio, il bosco roccioso è una tomba aperta, ma nella griglia di alberi e cespugli si muove uno spettro, Takumi Nakamura (Ken Watanabe) aspirante suicida pentito, che fermerà Arthur alla seconda pillola. L'uomo sanguinante chiede aiuto, e coinvolge l'altro in una corsa per la sopravvivenza. Segnali magici spuntano nella foresta, un'orchidea a testimoniare la perdita di una vita, una canzone, un rebus di parole, e i discorsi avvinghiati ai due uomini, lo scienziato scettico e il samurai mistico... In comune la favola di Hans e Gretel e il sentiero verso la salvezza.

Niente new age, la spiritualità laica di Gus Van Sant si sprigiona nell'abbraccio amoroso tra il giapponese che viola la tradizione del disonorato (ha perso il lavoro) e l'americano restio a credere a ciò che non vede. Feriti, ghiacciati dal gelo della foresta, i due sembrano su un terreno di guerra, mormoranti confidenze e segreti. In flashback le fasi del conflitto tra Arthur e Joan, il risentimento perché lui l'ha tradita, incapace di dirle l'amore. E poi la tragedia che non lascia margini di ripensamenti. 
 
The Sea of Trees, quarto titolo di Gus Van Sant in gara a Cannes, va alla ricerca della via d'uscita dal labirinto mortifero, una mappa incisa sulla carne di Arthur Brennan (performance impareggiabile di McConaughey) che non sa qual era la stagione e il colore preferiti dell'amata, “non la conoscevo”, rivelati post-mortem dagli ideogrammi dello spettro (non c'è traccia di lui, Takumi Nakamura non è mai entrato ad Aokigahara) che tradotti suoneranno così: “inverno” e “giallo”. 

Emotivamente insostenibile, evidentemente, per i festivalieri. Lo sono le favole.

Ps: In realtà, flash-back incrociati e coup de théatre finale e fantasmagorico sono risultati indigeribili. Dettagli.





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