giovedì 1 settembre 2016

VENEZIA 73. "Arrival" di Denis Villeneuve. "L'estate addosso" di Gabriele Muccino

Roberto Silvestri
VENEZIA

"Se vedessi tutta la mia vita scorrermi davanti, dall'inizio alla fine, cambierei qualcosa?” si chiede il matematico (Jeremy Renner) nel film di fantascienza “intelligente” Arrival di Denis Villeneuve (in concorso), dal romanzo di Ted Chiang Storia della tua vita. E risponde, soprattutto per far colpo sulla avvenente docente in linguistica, la poliglotta Louise (Amy Adams), “farei capire di più cosa provo dentro. Per tutta la vita ho osservato le stelle e scrutato lo spazio. Ma quando finalmente ho incontrato gli alieni la cosa che mi ha sconvolto di più sei stata proprio tu”. Prodotto dalla multinazione Sony, riscritto da Eric Heisserer, questo apologo femminista ma “marziano” che le armonie minimaliste di Johann Johannson dotano di flusso continuo, per introdurre un fatalismo benigno, e le luci di Bradford Young scelgono la strada del tonalismo, che è sempre spiritualmente corretto, ha l'originalità di proseguire l'intuizione di Spielberg. Negli “Incontri ravvicinati” quel che conta è il contatto con chi è diverso, capirsi, poter dialogare. Lì ci si comprendeva grosso modo, attraverso la musica. Ma qui le astronavi che scendono sulla terra pretendono di più e all'apparenza sono molto più minacciose. Dodici giganteschi baccelloni, a forma d'uova color marrone Kiefer, dotati di stratosferica tecnologia che planano ovunque, dalla Spagna al Montana, dalla Cina al Sudan. Cosa vorranno? Hanno cattive intenzioni oppure sono pacifici? I militari americani per una volta hanno l'umiltà di farsi aiutare perché non ci capiscono niente, e “sequestrano” la professoressa che al mondo sa tradurre qualunque cosa meglio di tutti (perfino della collega di Harvard) e la introducono, scafandro incluso, nell'astronave. Riuscirà a comunicare con gli esseri dai sette tentacoli e a forma di piovra oblunga, che sembrano usciti dalle fantasie spaziali di Roger Corman? Non siamo più alle prese, purtroppo, con gli alieni che parlano l'idioma di Shakespeare meglio di Eisenhower. E non basta una linguista, perché emettono suoni concreti sovrimpressi che neanche Edgar Varese saprebbe, oggi, trascrivere. Ci vuole una semiologa, esperta in linguaggi non verbali, dotata di mentalità matematica e soprattutto adepta dell'ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui la lingua può cambiare la nostra percezione della realtà e impadronirsi di un idioma diverso che rivitalizzerà tutte le nostre facoltà. Come fosse una droga estetica. Già. La lingua è proprio “come una forma di arte”. La prova? Louise Banks, all'università, sta per darcela, parlando del regno medievale di Galizia dove fu creato il portoghese, lingua romanza che rinnovò l'idioma latino, quando arriva la notizia dell'invasione spaziale. Riuscirà la nostra eroina, segnata dalla vita, ma che dalla tragedia di una figlia morta giovanissima, e dai suoi ricordi di lei, a decodificare segnali segreti transtemporali, a parlare con gli alieni e a capirne le intenzioni? Di che armi stanno parlando? Il finale, con l'arrivo dei cinesi cattivi, è naturalmente bassa ideologia. Ma, siccome il mercato cinese è indispensabile, perfino i cinesi diventeranno buoni. Ma non vi sveliamo come la prenderanno gli ufo né i sudanesi.

Scorrere tutta la vita davanti e decidere se cambiare qualcosa di decisivo è anche il problema del pianista di jazz rigoroso, ma in stato d'allarme, protagonista di La La Land, musical che rischia molto perché ai ragazzi la black classic music proprio non piace più. Infatti la coprotagonista dichiara, sinceramente, “Io odio il jazz”. E lei intende quello che conosce, da ascensore. O da playlist della radio californiana Kjazz 88.1. O quello orchestrato nel film da Jordan Horowitz, il genio dei timbri accattivanti e delle melodie facili, come quelle cromatiche che Linus Sandgren utilizza per fare la parodia visiva del technicolor di John Alton in Un americano a Parigi. Il jazz che vince l'oscar per la migliore song e un jazz che ci insospettisce. E dopo La la land (e Whiplash) lo si odierà ancora di più il jazz, hot o cool. Come se il jazz fosse una compilation di standard orecchiabili per far comunicare popoli dalle lingue differenti, da Misty di Errol Garner a Merci Merci Merci di Cannonball Adderly. Tra addestramento da marine alla batteria e lettura romantica del solista come ottimizzatore finale di arrangiamenti commestibili, quello che viene gettato dalla finestra è la storia profonda di una musica e di una cultura. Però il tono light piace, è commuovente, comunicativo, scolastico in senso di Scola, sa far uscire la lacrimuccia a comando. Gabriele Muccino in L'estate addosso tratta San Francisco proprio come Chazelle Los Angeles. Come cartolina per turisti e cinefili pigri? No, l'europeo che guarda a occhi sgranati il ponte dei suicidi, l'ex carcere di Alcatraz, le strade sali scendi e vi ambienta i suoi natali e capodanni, fa commedia di comici e ha estremo bisogno di set credibile. Muccino racconta invece di sentimenti sommersi e tragicomici. Cose che conosce di prima mano. Il resto è sfondo. Tanto che si dimentica il famoso detto chandleriano: “era un inverno freddo come un'estate a San Francisco”. Ma a lui interessa altro. Per esempio il quasi primo amore tra due diciottenni della Roma nord bene (che a casa si odiano), lo scafato Marco, un futuro veterinario, e la noiosissima Maria, ma bigotta reazionaria solo nell'apparenza, nasce forse e si rafforza un po' in California grazie a quel tocco di magia costituito dalla vacanza, dai loro ospiti, una divertente coppia omosessuale (per una ragazzina sedurre un gay è poi un punto in più di autostima) e dalle circostanze che li obbligano gioco forza (e per lo scherzo da prete di un amico sadico) a condividere lo stesso letto. Quel che nasce in effetti è un rapporto a quattro che è ancora più solido, consapevole, carnoso e profondo di un rapporto d'amore estivo di coppia, e finirà addirittura in un viaggio a Cuba, che rischia lo spot Campari. Matilda Lutz come fiore che nasce dal letame, è davvero imbattibile. 

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