domenica 18 dicembre 2016

Joaquim Jordà, lo sguardo libero. Ricordo, a 10 anni dalla morte, del grande cineasta e militante catalano, europeo e mondiale


Roberto Silvestri (*)




Dante no es unicamente severo è il migliore film spagnolo che abbia mai visto”    (Jonas Mekas, a Pesaro nel 1967)




Ho conosciuto ‘dal vivo’ la gentilezza, la cultura cinematografica radicale, l’umorismo e la passione politica del cineasta catalano Joaquim Jordà nel 2000, a Bilbao, dove era, e molto omaggiato, il perfetto presidente della giuria di Zinabi 43, festival internazionale dei corti doc e fiction.
Tre anni dopo Il vangelo di Pasolini, nel 1967 Enrique Irazoqui interpreta "Dante no es unicamente severo" di Jordà
Jordà stava terminando allora una sceneggiatura di Carmen per Vicende Aranda, che sarebbe uscito nelle sale nel 2003, ed era, come sempre, attivissimo e polivalente: continuava nel lavoro critico, faceva l’attore, si impegnava nella produzione, nella polemica teorica e scriveva molti copioni, progettava documentari, insegnava alla scuola di cinema, ma era piuttosto negativo sullo stato di salute del cinema avanzato e di ricerca del momento (cose tipo Dogma non lo entusiasmavano), e catalano in particolare (criticava perfino gli ultimi lavori del suo allievo Chus Gutierrez). 


La soddisfazione professionale scavalcò d’un pelo, comunque, la sua proverbiale modestia per la retrospettiva che Euskadi gli aveva organizzato, parallelamente al festival, anticipando persino i più recenti omaggi di Madrid e Barcellona.
Abbiamo visto in 5 giorni, tra indimenticabili libagioni basche, e anche una ‘Noche de vino tinto’ (parafrasando il titolo di un film del ‘66, del portoghese José Maria Nunes, antesignano della Scuola di Barcellona), un’infinità di pellicole. E premiato, grazie a un deviante gioco di squadra (complice il cineasta argentino Settimio Presutto), che quando scatta sbaraglia qualunque architettato buon senso, un poema hip-hop sulla rivoluzione messicana riletta in chiave Gianikian-Ricci Lucchi (I sandali di Zapata, di Luciano Larobina), dando due menzioni, a un Bartleby lo scrivano della critica d'arte neozelandese Miro Bilbrough, capace di tramandare la tecnica del saper dire di ‘no’ e a un audace e insostenibile ritratto di homeless messicana devastata, La virgen Lupita di Ivonne Fuentes.
Jorda amava particolarmente il cortometraggio su Zapata, costretto a fare i salti mortali per attenuare l’esiguità dei materiali filmati e fotografici sopravvissuti, forse perché gli ricordava il suo Lenin vivo, montato utilizzando, tra didascalie, molto silenzio e suggestivi neri, solo tre reperti audio e 22 piccoli filmati, e tra questi i funerali di Jacov Michajlovic Svertlov e Petr Alekseevic Kropotkin, le uniche registrazioni audiovisive in vita rimaste dell’uomo (anche se progressivamente, stranamente, sempre più malato, a poco più di 50 anni) che aveva sconvolto il mondo, creando un’alternativa bolscevica al capitalismo nella sua fase monopolistica e imperialistica, ma che era morto troppo presto per far riprendere il mondo da quello shock, e per fare funzionare davvero l’economia (perché no, anche di mercato) dei soviet. 
Lenin vivo era un corto prodotto nel 1970, durante l'esilio di jorda in Italia, dall’Unitelefilm (grazie all’aiuto di Gianni Toti), ed è ora all’Archivio del movimento operaio e democratico (aggiunta imposta in epoca Craxi dalla necessità di accedere a finanziamenti pubblici) di Roma, realizzato nel centenario della nascita dello stratega principale della rivoluzione russa, senza alcuna traccia di retorica apologetica. E’ piuttosto una appassionata ed estrema lettera d’amore per sole immagini, un canto visuale molto circostanziato (di ogni reperto Jordà spiega esattamente senso politico e data) per quel pioniere dell’emancipazione internazionalista, per quel viso ‘euroasiatico’, per quegli occhi acuti e concentrati, per la voce che declama una rarissima poesia di sua composizione; per l’umiltà di un leader politico che odia il culto della personalità e urla a Eduard Tissé, il gigantesco operatore che si fa largo tra la folla esultante per riprenderlo: ‘non inquadrare me, piuttosto registra i volti soldati che vanno al fronte’; per quel nodo elegante alla cravatta, lungo e cilindrico, e per quei cappelli e berretti, anche celtici, che Jordà utilizzerà identici (il colbacco, per esempio) per combattere una calvizie simile.  Ma anche i segni di quelle terribili operazioni subite da ragazzo, dopo un infarto cerebrale, anche attraverso la lobotomia  dopo la quale Jordà perse la facoltà di vedere a colori, accontentandosi del bianco e nero.

Il documentarista Martì Rom e Joaquim Jorda (a destra)
La lobotomia è appunto il soggetto e il nemico del suo pamphlet anti-psichiatrico Monos como Becky, del 1999 (visto alla Mostra di Pesaro del 2002) che racconta i primi esperimenti scientifici di rimozione di parti del cervello effettuati sullo scimpanzé Becky dal neurologo portoghese, premio Nobel 1934, Egas Moniz. Un altro documentario ‘improprio’, quasi un mockumentary (visto che comprende la messa in scena di un ipotetico assassinio di Moniz che coinvolge un gruppo di degenti gravi della comunità terapeutica di Maresme, in Spagna) dove il quoziente di difficoltà è alto perché manca il materiale di repertorio portoghese, se non audio, sufficientemente valido. Come se i lusitani fossero a disagio proprio davanti a una loro gloria nazionale. Eppure la celebrazione in negativo dello scienziato salazariano che voleva calmare gli schizofrenici violenti, togliendogli pezzi di cranio, oltre a essere uno degli esempi più commuoventi e ‘obliqui’ di cavalcata tra i generi, è anche il segno che l’antipsichiatria non è una moda che fu, ma continua a smantellare crimini tuttora protetti dalla legge. E che senza affetto sociale e carezze terapeutiche nessuna medicina è mai in grado di curare alcunché.

Sempre sul (e contro il) Portogallo della feroce dittatura Caetano e della estrema povertà nelle campagne, ‘paese coloniale ma colonizzato’, i cui interessi sono cioè legati a filo doppio a quelli delle multinazionali americane, tedesche e olandesi, Jorda girò un magnifico documentario, più che militante, prodotto nel 1969 sempre da Unitelefilm.
Un lavoro che analizza, pochi anni prima della rivoluzione dei garofani, la possibilità e la legittimità della lotta armata in un paese autoritario, ma sotto stretta tutela Nato, anche come aiuto alle lotte per l’indipendenza nazionale delle colonie africane d’Angola, Mozambico, Guinea Bissau e Capo Verde. Portogallo paese tranquillo comprende schede storiche, grafici, materiali di repertorio anche televisivi, un titolo ironico che si riferisce all’ipocrita slogan della campagna turistica di Lisbona ‘69, e una dura requisitoria contro Paolo VI che aveva appena riempito di onorificenze i petti  insanguinati dei torturatori capo della Pide, la polizia segreta, gli squadroni della morte anticomunisti di Salazar e Caetano, in occasione di una vergognosa visita di supporto al regime fascista. Ma il pezzo forte del film sono le interviste al leader del movimento di liberazione di Capo Verde e Sao Tomé,  Amilcare Cabral, a un Mario Soares dirigente socialista giovanissimo e già grintoso che mai, a militanti rivoluzionari clandestini che teorizzano e praticano l’esproprio proletario delle banche, a gruppi cattolici del dissenso, a studenti protagonisti di clamorose azioni di disturbo e di sciopero, ai coraggiosi disertori dell’esercito coloniale e a contadini poverissimi che giustificano, con la sopravvivenza della famiglia, il loro sì all’invio dei figli nella guerra d’antiguerriglia in Africa: “anche se non sappiamo nulla di quel che fanno e vedono; di nuovo a casa, se tornano, non ci dicono nulla di eccidi e torture, come se gli avessero messo un tappo in bocca”.            
Tornando a Lenin, la cosa che più colpisce in quelle immagini in bianco e nero di repertorio è che in campo, vicino a Lenin, quando non parla al popolo, sgolandosi a destra e a sinistra senza microfono, ci sono sempre ragazzini e donne: che, insomma, il comunismo era ‘a portata di mano’, e ancora un movimento fortemente controllato dal basso, non come durante il ‘machismo’ burocratico staliniano o brezhneviano.
E’ al cuore di quel film, super star assoluta, il comunismo, come programma minimo, ribellione ovvia e quotidiana contro il capitalismo e lo sfruttamento; come autogestione delle fabbrica da parte dei lavoratori, ipotesi di controllo della intera società ‘dal basso’ e passaggio, in metamorfosi, da: 1. forza lavoro imprigionata, devitalizzata e ‘tonta’, a 2. classe operaia sindacalizzata e consapevole, a 3. ‘soggettività desiderante’ rivoluzionaria ed egemonica che controlla danzando la propria vita, guarisce l’abbrutimento della catena di montaggio e l’alienazione, e pratica la riduzione dell’orario di lavoro e l’aumento di quello del piacere. 
Il comunismo è stato lo spettro, oggi demodé (perché l’Europa ha delocalizzato, con le fabbriche, anche le ‘lotte sociali concentrate’ nei tre mondi) che si è aggirato per tutto l’occidente durante il periodo ’68-‘77 ed oggi sta scavando sottoterra da vecchia talpa. E che domina un altro documentario obliquo di Jordà (se non altro per una messa in scena finzionale, più che spettacolare, clownesca, del punto di vista capitalistico), Numax presenta, una sorta di monumento, tuttora vivente alla lotta contro lo sfruttamento. Una fabbrica di elettrodomestici, ventilatori e aspiratori, chiusa dai padroni circa 30 anni fa è espropriata e gestita, dopo uno sciopero, dai lavoratori. E’ ancora in mano operaia (Jorda ne ha realizzato, recentemente, un secondo documentario ‘storto’), almeno nel 2004, non senza problemi, difficoltà di mercato e di rapporti esistenziali e sociali che in quasi due ore vengono analizzati e discussi dai più attivi tra i 120 occupanti. Ma l’esempio Numax ha anche dimostrato possibili, socializzabili (e discusse nel loro vero significato) pratiche come quelle della cooperazione, dell’egualitarismo, degli asili nido e delle scuole anti analfabetismo in fabbrica, e dell’autoresponsabilizzazione. In Francia, in Italia e nel Portogallo della rivoluzione deiu garofani, avvennero esperimenti simili, ma fallirono.   
Jordà, alto, robusto, leone, anche zoologicamente, e ‘sessontottino’ con la barba folta, conosceva molto bene l’Italia della dura dominazione Dc e della sinistra antagonista (e Lino Micciché, Bruno Torri, Paolo Brunatto, Gianni Toti, e molti leader di Potere Operaio come Nanni Balestrini), avendovi vissuto e combattuto per alcuni anni, visto che era stato semiespulso da una Spagna franchista, attorno al 68, particolarmente insopportabile e decadente (‘Questo paese di tutti i diavoli’, come l’aveva definito il suo amico cineasta Jacinto Esteva). Invece le lotte operaie e studentesche della nostra penisola, erano diventate una magia - senza trucco - di livello internazionale affascinante, anche se a volte era ‘magia nera’, per i cineasti rivoluzionari come lui (Godard, Rocha, Polanski, Nelson Pereira dos Santos, Marc’O, Jancso, Mekas e molti altri underground Usa, e perfino i niene affatto militanti Morrissey e Warhol, frequentavano più o meno i suoi stessi suoi bar e vinai romani di campo de' Fiori e dintorni). 
Il concittadino Jorge Grau, che un decennio prima aveva frequentato il Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, deve avergli passato almeno qualche buon indirizzo e qualche amicizia a Cinecittà (per Vittorio Cottafavi Jorda scriverà il Cristoforo Colombo televisivo), se non proprio la passione per il cinema-diretto zavattiniano o per la messa in scena barocca e per la ‘recitazione accurata’ tutti difetti che Jorda non ha mai voluto condividere, vista la sua famosa battuta che ne definisce la poetica: ‘se non possiamo fare Victor Hugo perché c’è la censura, allora facciamo Mallarmé”.   
El encargo del cazador
Certo la ‘scuola di Barcellona’ era collegata all’ ‘insoddisfazione colta’ di Tàpies, al gruppo 63 conosciuto attraverso conferenze catalane di Umberto Eco e al movimento neodada di Dau al Set, ma in sostanza era FilmsContacto, ovvero i soldi del papà di Esteva, l'amico e sodale di Jordà. Però i 9 punti del manifesto Jorda (formalismo; sperimentalismo visuale e narrativo; modo di produzione cooperativo e intercambiabilità dei ruoli professionali; autofinanziamento; soggettività desiderante da dispiegare; utilizzo di attori non professionisti; formazione non accademica né professionale dei registi; disinteresse per il cinema neorealista di Madrid e per i distributori ignoranti) bastarono per creare censure e grane. Il corto di Jordà Día de muertos fu censurato perché si inquadrano le tombe di famosi intellettuali di sinistra. L’attrice Serena Vergano fu arrestata durante il festival di Sitges. 200 mila pesos di multa a Jordà furono imposti daò governo di Fraga Iribarne perché alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro il cineasta non si era espresso in lingua castigliana ma catalana. Dialoghi censurati in Dante, censure a due copioni di Jorda, El jardín de los ángeles e Cosmos, da Gombrowicz, censure a Raimon, il corto di un allievo di Jordà, Carlos Durán, e anche a Liberxina 90 (1970)…   
El encargo del cazador
In quella settimana basca di Bilbao, Jordà riscì a trovare anche una sala fuori mano dove far proiettare, per la sola giuria che l’aveva perduto, El encargo del cazador, il commuovente elogio funebre di Jacinto Esteva Grewe, suo strettissimo amico e membro della ‘Escuela de Barcelona’, battezzata così in un articolo di Fotogramas da Ricardo Mũnoz Suay il 5 agosto 1966, appassionandoci al clima esistenziale e creativo della Catalogna anni sessanta e a quel cineasta così originale, una specie di Paul Gégauff, ma rosso e ricchissimo (e anche architetto, urbanista, pittore, e feroce ‘King Kong dal cuore d’oro’, ma di insopportabile, insostenibile carattere) che si era suicidato troppo giovane, lasciando un vuoto incolmabile nelle parti vive della metropoli e interminabili, mai montate testimonianze filmate di caccia al leone e all’elefante. La sua droga trasformata in arte huston-eastwoodiana (Cacciatore bianco, cuore nero). Con questo “dilettante che faceva tutto abbastanza bene, a parte uccidere gli elefanti perché quello gli piaceva davvero e lo sapeva fare ottimamente”, Jorda ha scritto e diretto il suo primo film indipendente di successo mondiale, e che possiede anche il titolo (tratto da Ehrenburg) più bello della storia del cinema, Dante non es únicamente severo (1965). Un poema visuale dadà e libero in cerca di fabula (ma il principe azzurro ha davvero la faccia colorata di azzurro); a tasso alcolico alto e nicotinamente più che corretto; che urla con humor all’estinzione dell’inferno fascista; tra documentario ‘udigrudi’, reversibilità del tempo, jazz locale alla Tete Montoliu; moda Tuset Street (o Callet Tuset), sguardo e sensibilità androgena (una protagonista è la modella pubblicitaria e mannequin Carmen Romero detta Romy, moglie di Esteva), omaggi all’occhio tagliato del Cane andaluso di Bunuel, a Cortazar, al Godard di Due o tre cose che so di lei e Baudelaire (declamato da Serena Vergano), e teatro ‘on the road’ in cerca di esodo, ma anche a proprio agio nell’uso e abuso delle tecniche pubblicarie (‘un’immagine può condurci verso una storia, una storia mai verso un’immagine’…). Il tutto vinse il premio di Filmcritica a Pesaro 1967. 

Dante no es  estremamente severo
Nel film è contenuta anche la classfica generale dei gusti cinematografici di Jorda (Straub e Skolimowski a parte, sempre molto stimati dal cineastia: 1. Pierrot le fou di Godard, voti 4. 2. My Fair Lady di Cukor, voto 3; 3. Ascensore per un patibolo di Malle, voto 2; 4. Don Chisciotte sovietico, voto 1; 5. Mientras haia salud di Pierre Etaix, voto 0. Una classifica che è anche autoparodistica perché non tollera le gerarchie scolastiche (anzi si potrebbe perfino capovolgerla). Jerry Lewis (adoratore di Etaix) sarebbe molto dispiaciuto per questa apparente retrocessione, anche perché non manca in quel film una sequenza iconograficamente distorcente, come piacevano a Jordà, quando improvvisamente appare un volantino con su scritto: “si sospende la proiezione della pellicola fino al totale ristabilimento dell’ordine. Le autorità confidano che il buon senso della maggioranza non tarderà a imporsi sulle intenzioni sovversive dei pochi”. Per non parlare di quell’animale mangiapietre che vive a 10 metri sotto terra e che sembra proprio una creatura di Fontcuberta...

* L'articolo, pubblicato nel 2004 dal manifesto, è alla base di un intervento durante l'omaggio del Torino Film Festival 2006 a Joaquim Jorda, organizzato il 16 novembre da Nuria Vidal e Roberto Turigliatto, con interventi, nella sala Massimo 3,
di Nanni Balestrini, Jordi Balló, Edoardo Bruno, Daria Esteva, Isaki lacuesta, Laia Manresa, Marc Recha, Gloria Salvadó. Nel 2001 Martì Rom ha realizzato un documentario, Joaquin Jordà, dedicato al grande cineasta nato nel 1935 e morto dieci anni fa, nel 2006. Il film è stato prodotto dal Collegi d'Enginyers Industrial de Catalunya all'interno di un progetto volto a rendere omaggio alle grtandi personalità della cultura catalana dai musicisti Carles Santos e Josep Maria Mestres Quadreny al fotografo Catala-Roca, allo scrittore Joan Perucho, allo studioso di Picasso Josep Palau i Fabre, al musicista Riudoms Joan Guinjoan, alla scrittrice Marta Pessarodona, all'architetto e poeta Joan Margarit.

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