lunedì 16 gennaio 2017

Lucciola scatenata. Il Silenzio di Martin Scorsese




Roberto Silvestri

Il silenzio comincia ad assumere una forma, a diventare una cosa (Pessoa)

Gli artisti devono essere estremisti, non possono mai accettare compromessi, salvo perdere i loro poteri speciali. I politici devono essere mediatori, devono fare i conti con i rapporti di forza, e cercare di spostarli in avanti anche di poco, non in nome dello sviluppo ma del progresso, come hanno fatto Lenin, Mao, Obama... Chi confonde le due cose può produrre errori e perfino crimini (anche estetici) inenarrabili. Per esempio i missionari, i mistici cosmopoliti, o alcuni gesuiti, ascetici machiavellici per eccellenza, che vediamo all'opera catacombalmente in questo Silence e che causarono indirettamente la morte di molti fedeli "anonimi", in nome della Verità e per conquistarsi loro un posto al sole nel calendario ecclesiastico (il 6 febbraio si festeggia, per volontà di Pio IX "San Paolo Miki e compagni", i primi 26 martiri di Nagasaki, 1597). O altri uomini di fede, moderni e organizzati, che pretendono di regalare la Verità urlata a tutti, anche a chi quel regalo proprio non lo vuole. Ecco il senso di questo bel film sui cattolici, né accademico né gongorista né "ogni inquadratura un dipinto", di Scorsese. Seguire le indicazioni di padre Ferreira (Liam Neeson), l'apostata, il traditore (in stato di allarme) compiere "il più doloroso atto d'amore di cui nessuno è stato capace". Intensificare la fede sotto altre forme, pregando con gli occhi aperti e non chiusi, come vuole la ferrea regola, è possibile.  Darsi per vinto, nel caso, ma mai per sconfitto. E' bizzarro che in questo modo il gesuita e il marrano si siano riconciliati, svuotandosi di non poca identità pletorica, ebraica o cristiana. Il tutto nel silenzio, per nulla assordante, del Signore (anche se nel libro da cui è tratto il film il Signore a un certo punto interviene e indica la strada: tradisci! calpestami!"). In fondo i giapponesi cattolici, del tutto estranei alla storia alla lingua e alla tradizione cristiana come atto fondativo di fede non hanno forse tradito i loro antenati? Anche Mao, al culmine del suo successo di immagine, non fece forse imprevedibili trattati commerciali e politici con il nemico Nixon? E Bergoglio: non dicono in troppi che stia tradendo? Insomma. Uno dei pochi film adeguati allo scontro armato che ci contrappone in questi anni, occidentali e orientali, alla ragione fascista, inscalfibile, degli islamisti. Come intensità spirituale siamo oltre. Chi nel film interpreta il ruolo del Giuda locale, per esempio, non ha niente da invidiare a Jennifer Beals di Flashdance, alla disperata ricerca di un confessore che la assolva dai suoi tremendi peccati (di tipo sessuale, in quel caso, non venale). Il gesuita americano James Martin, che del film è stato consulente,  e dice di aver lavorato non poco a rendere più credibili i due protagonisti, parla non a vanvera di questo film come del "più bello mai realizzato sulla fede", più dei due capolavori post e pre-Vaticano II, Il Cardinale di Otto Preminger (1963) e Il potere e la gloria di John Ford (1947). E sugli aspetti più traumatizzanti della chiesa cattolica lo stesso Scorsese aveva a lungo elaborato, a partire da Chi sta bussando alla mia porta, Mean Streat e Toro scatenato.

Oggi, che i gesuiti sono al vertice della chiesa, per ridarne un'immagine credibile, mentre nel 1700 furono piuttosto irrequieti, inquisiti e proibiti dal Papa, soprattutto per merito della base, ecco un film, Silence, che rende omaggio al loro mezzo millennio di vita e di opere, di fede e di perseveranza, di disciplina e di indisciplina. In fondo, nati come braccio armato della Controriforma contro ogni modernismo, i perseveristi (già, proprio come The Founder) sono stati alle scaturigini del pensiero globale e linguisticamente onnivoro, come in un facebook ante litteram: padre Matteo Ricci parlava mandarino (peccato che a King Hu che proponeva alla Rai 20 anni fa la sua storia hanno sbattuto la porta in faccia); padre Vieira tutti gli idiomi amazzonici, Rodrigues e Garpe, i due protagonisti, differentemente martiri, di questo film dark e acquatico, il giapponese: il corpo e il volto essicato e scarnificato, come fosse Joao Cesar Monteiro, di Adam Driver, Garpe, che sembra una caricatura dell’occidentale dell’epoca, ci resiste, perde tutti gli aggettivi, è incommentabile come un haiku né delicato né saporito; mentre Andrew Garfield, Rodrigues, sembra aver fatto fare i sette mesi di esercizi spirituali non alla sua anima ma solo ai suoi capelli vaporosi, e diventa l’efflorescenza inessenziale di un oggetto: resta assiso proprio per restare assiso. Due grandi performances...
Adam Driver

Intanto i generali gesuiti nel palazzo borrominiano di Propaganda Fide a Roma avevano dovuto aggiornare e aprire velocemente i vangeli (frutto lisergico dei lunghi mesi di esercizi?) alla sensibilità del Nuovo Mondo con la scoperta di terre, armi micidiali, afrodisiaci e schiavitù non previste neanche dal Corano. E continuavano a far tacere i ribelli, a mettere in fuga i Caravaggio inventando il primo codice Hays della figuratività ammessa e consentita e a condannare a morte tutti i rivoluzionari, come capiterà due secoli dopo perfino a Gioberti, il nostro eroe cattolico del Risorgimento.

Martin Scorsese e Andrew Garfield
Il film si svolge in un luogo preciso del Giappone, nella parte più sud-orientale, presso la Cina, nell’arcipelago delle 5 isole, di Goto, casuale ma preciso omaggio anche a Walerian Borowczyk che nel 1968 con Goto l’ile d’amour aveva raccontato in metafora, le dittature d’ogni genere e tipo, shogunato compreso. Oggi Goto pullula di chiese cattoliche, riabilitate all’inizio del 900. A conferma dell’ostilità politica in quella congiuntura, del confronto che si riteneva militare più che religioso e culturale tra Giappone e loyolisti (visto che 300 mila fedeli, di capacità sincretiste fuori del comune, erano pure stati battezzati, prima delle purghe nella zona…e visto che quanto a imperialismo i giapponesi che invadevano la Corea massacrando anche lì i cristiani non aveva nulla da imparare da Giovanni IV il Restauratore e dai sovrani iberici precedenti). Al centro della contesa tra giapponesi e portoghesi del seicento, però, oltre alle divergenze commerciali e strategiche, ecco anche l’immagine. Il Cristo verticale contro il Buddha orizzontale. Il Cristo sanguinante e isolato dal mondo, e il Buddha sereno e quasi sorridente steso nella natura. Noi il vino rosso, loro il thé acromatico (decolorato come il film di Shinoda, di cui Scorsese fa il remake e il verso). Toccarlo da blasfemi con il piede (il rito del fumi-e, il calpestamento figurato, ci spiega Paul Senhal), o sputare sull’effigie della Vergine Maria, imprecando contro la Santa Puttana, cosa richiesta per l’abiura, sembrerebbe quasi, in questa chiave, una raffinatezza psicologica nipponica, un permettere ai cristiani, così concentrati sulla loro anima, di ripulirsi da ogni egoismo, conscio e inconscio, di smarcarsi dalla loro lingua e tornare a toccare il mondo, a sciogliersi nel legno, nel bronzo e non a inebriarsi d’adescamento. Come in un’esperienza estetica, mi raccomando non panteista né concettuale. Intuitiva. Immagini che producono altre immagini, e non solo visive. Ecco il senso della produzione artistica. Ecco quel che fa il film. Strano che poi i giapponesi non preghino con le mani e non si tocchino in pubblico mai con le mani, e non si abbracciano calorosamente. Il loro contatto avviene più coi piedi, che telepaticamente comunicano, che con le mani. Ecco perché qui è un continuo passarsi le croci più minuscole di mano in mano....
Al centro dell’intesa tra shinto e mercanti calvinisti olandesi del periodo, infatti, la protestante indifferenza verso le immagini sacre di questi ultimi. O almeno una intepretazione già modernista, essenziale, quasi geometrica della fede. Croci quasi insignificanti, invisibili, ornamentali, da integrare - meglio se invisibili - alle geometrie delle tazze…  

Jay Cocks, lo sceneggiatore newyorkese del film, ha scritto L’età dell’innocenza, lo Scorsese più cristallino. E poi è responsabile dei copioni di Strange days di Kathe Bigelow, Gangs of New York e (non accreditato) L’ultima tentazione di Cristo. Gli italiani Francesca Lo Schiavo (scenografa anche felliniana) e Dante Ferretti alle scene e ai costumi fanno parte da sempre della band Scorsese. Il messicano Rodrigo Prieto di Amores Perros sfida alle luci chi fece Rashomon e I racconti della luna pallida d’agosto, Kazuo Miyagawa. Ma siccome ci sono per fortuna Shinya Tsukamoto (il simbolo stesso delle mutazioni postumane qui trova il suo antenato) e l'altro filmaker Sabu nel cast, e molti cinesi nella troupe, si può definire Silence  una sorta di Merry Christmas Mister Lawrence rovesciato.  Scontro/ incontro armato. Armato perché, diciamocelo, i giapponesi, appena riunificati per necessità, avevano paura non del cristianesimo portoghese ma dei fucili e delle pistole portoghesi, e di un disciplinato “esercito di Dio”, sempre pronto, vedi il Brasile di Vieira, a strumentalizzare ogni rivolta popolare…. E anche perché, nella storia originale da cui è tratto il film, la tortura del corpo sepolto interamente, tranne la testa, c’è sia lì che qui. E non è l’unica ferocia da Inquisizione spagnola a cui assisteremo.
Martin Scorsese, figlio dei fiori beat, più che ex seminarista, fa parte di quella generazione di cineasti americani post-concettuali e sincretici che volgono ogni tanto lo sguardo, rapito, a Oriente e preferibilmente al Giappone di Ozu, Mizoguchi, Oshima e Naruse. Non sono stati solo gli intuitivi poeti dell’underground, o George Harrison, a compiere quel grande detour anti occidentale: L’inconscio cosmico fotografato dal 2011 da Terrence Malick; Lucas e Spielberg che produssero Ran di Kurosawa; Paul Schrader che emulò i film yakuza e riprodusse il suicidio in tv di Mishima, così come Eastwood la guerra del Pacifico con l’occhio degli sconfitti (ma mai vinti) e Sofia Coppola lo spaesamento fertile dei turisti americani a Tokyo. Tutto questo ci ha abituato lentamente a considerare spazi e tempi, movimenti e luce, recitazione e decor del cinema in maniera differente: “I film europei sono basati sulla psicologia umana, quelli americani sull’azione e sulla lotta tra esseri umani, quelli giapponesi sulle circostanze, cioè su ciò che circonda gli esseri umani”. Lo dice a Joan Mellen un cineasta giapponese esploso negli anni sessanta del secolo scorso che Scorsese conosce molto bene, Shinoda, perché i suoi film sono diffusi in dvd dalla prestigiosa etichetta Criterion e al cui classico, Chinmoku, Il silenzio, ha voluto rendere esplicito omaggio in forma di haiku-remake.  In fondo i due film concordano sul punto centrale. Animismo e buddismo potevano sovrapporsi, ma cristianesimo e shinto no, perché nel primo conta l’unità, anzi lo scioglimento alchemico dell’uomo con la natura, mentre nel cristianesimo il rapporto è tra un uomo con un altro uomo (e la natura è, piuttosto, bottino da arraffare come marines). 
Liasm Neeson nel ruolo di Cristovao Ferreira, che rinnegò Cristo ne 1633

L’haiku, che proprio nel XVII secolo, raggiunse l’apogeo con Basho, sia per Sebastiao Rodrigo che per Francisco Garpe, i due compagni di Gesù, sarebbero stati del tutto incomprensibili. Sono troppo avanti per loro. Ma non per Paterson-Adam Driver: “il vecchio stagno, ah! Una rana ci salta dentro: il suono dell’acqua! Quel che significa è tutto là dentro le parole, né sopra né sotto, ossia il senso non c’è. Quel che resta è l’esenzione del senso, scrittura.  Cesare Brandi avrebbe detto: è l’impero dei segni contro l’impero delle immagini. Ma per la prima volta avrebbe sottoscritto, d’accordo con Barthes:  “sono segni che riducono al massimo  il significato rispetto al significante, per cui il segno è più scrittura che parola, ma non in senso decorativo. Nel senso che la forma è vuota”. Chi non ama la forma vuota non ama questo Scorsese vuoto. Ma.  
Con una non-mente e con un non-pensiero come si fa a peccare, a chiedere misericordia, a perseverare sulla retta o sulla storta via? Come si farà a giudicare un non-io in cerca di Inferno o Paradiso?
Visto che Scorsese è anche un cinefilo raffinato, un produttore instancabile, un documentarista radicale, un autore di serie tv innovativo e un formidabile restauratore di classici extracomunitari e anti hollywoodiani, oltre che un teorico e parlatore di cinema inesauribile (esistenzialmente deve essere proprio alla ricerca di calma, vuoto, silenzio), non si tratta certo, con Silence, della solita trovata di mercato da major per conquistare l’Asia, il nuovo paradiso dei profitti per il cinema, ma di una operazione artistica davvero rischiosa. Il copione (non commissionato a Schrader: perché intollerante ai gesuiti?) non deve essere nemmeno piaciuto allo sciovinismo di Abe, visto che le riprese sono state effettuate a Taiwan e in Messico. Tra i produttori c’è perfino il redivivo Cecchi Gori, oltre al fido  Winkler. E in Usa il film è finora uscito solo in sale scelte. Il che vuol dire kolossal dal respiro d’essai.


Tanto più che nel 1971 la leggenda vivente del cinema giapponese Masahiro Shinoda, girò e portò a Cannes (dove venne però sconfitto da Rosi e Petri, in giuria Losey) la prima versione, piuttosto estetizzante, del romanzo del 1966 di Shusaku Endo (1923-1996), il Graham Greene giapponese, sulla persecuzione, il massacro e la definitiva espulsione dei cristiani dal Giappone, operazione iniziata dal samurai Toyotomi Hideyoshi alla fine del 1500, nel periodo Togukawa. Endo, che scrisse la sceneggiatura litigò con il regista per il finale che non vi dico. Ma che comunque era piuttosto “boccaccesco”, rispetto al tono sacrale e quasi “pietistico” e "devozionale" precedente. Di magnifico in quel film, a parte la preferenza per il bassorilievo della Madonna piuttosto che quello di Cristo in croce, c’era una colonna sonora di  
Tôru Takemitsu che incastra in cacofonia sublime, a far capire come gesuiti e shogun stessa faccia stessa razza, pavane barocche con rumori aleatori di chiara spiritualità Zen.  
Riempito ormai l’arcipelago nipponico di McDonald, asservito agli Stati Uniti dal doppio trattato di amicizia, perduto perfino l’Imperatore non più Dio in terra, almeno così ha abiurato anche lui, il Giappone rimase misterioso e inafferrabile per definzione, come i cartoni animati per il critico cinematografico “che ama tutti generi tranne…”, una stratificazione intricata di culture altre ma di crescente charme filosofico, per quanto il professore Daisetz T. Suzuki si sia sforzato, dal 1938, di colmare quel vuoto di comprensione scrivendo libri e libri sullo zen (che è un po’ la sintesi alta della contaminazione tra shinto e buddhismo, micidiale miscela culturale e religiosa contro la quale si infranse nel seicento il sogno missionario dei cattolici portoghesi) : “Lo zen ci conduce nel regno del vuoto e della vacuità (1), dove non domina il concettualismo e dove gli alberi crescono senza radici…. “. Il Giappone è una palude, detto dall’inquisitore a Rodrigues, questo vuol dire. Viceversa, dai "barbari del sud", Namban-jin, come chiamavano i portoghesi, i giapponesi hanno distillato l'anima. Molte parole portoghesi sono entrate nel loro vocabolario  (butan, kappa, koppu, pan, tempura, kasutera...) tanto da inebriare due secoli dopo l'intellettuale Venceslau de Morais, che Paulo Rocha ci ricorda, è stato il vero trait d'union tra l'Impero del Sole e il Quinto Impero, nonché il secondo grande traditore della cutura occidentale dopo padre Ferreira.
A proposito. Questo mistero orientale che Scorsese indaga (dopo una prima incursione nel buddhismo tibetano, con Kundun) anche nel suo nuovo film già dal titolo è esplicitamente un richiamo allo zen. Della guerra cruenta tra due religioni diversamente non pacifiste, tra cristianesimo e zen, si parla. La raccolta di scritti del compositore occidentale più zen di tutti, John Cage, aveva proprio questo titolo.  Silenzio.  


(1)   Evitare, però, a Roma la sala 7 del cinema Adriano di Ferrero. Dalla sala accanto giungono, senza insonorizzazioni a placarle, davvero blasfeme, le song di Sing che sconsacrano, in particolare Lady Gaga, questo bel saggio sulla spiritualità nostra e loro. La lora anche spiritosa. Ma per Ferreira, Rodrigues e Garpe c'era poco da ridere. I gesuii preferivano Eraclito a Democrito (il riferimento è a Palavra e utopia di Manoel de Oliveira, il combattimento tra retori di fronte alla regina Cristina di Svezia, in Vaticano. Certo, senza aver presente quel film è difficile giudicare questo).

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