domenica 19 febbraio 2017

Jackie, sotto il vestito (Chanel) niente

Mariuccia Ciotta

Vestita di rosa e rosso Chanel, decorativa first lady resuscitata da Pablo Larrain in un falso reportage in bianco e nero, Jackie, proveniente dalla Mostra di Venezia (esce giovedì 23 febbraio) irretisce lo sguardo nella superba performance di Natalie Portman.
Jacqueline apre le porte della Casa bianca alla Cbs e al regista cileno di Post Mortem che la declina in leziosa, elegante donnina e poi in un'implacabile vedova capace di allestire funerali spettacolari in mondovisione.
Lo stesso trattamento cinico Larrain l'ha riservato al poeta Neruda (2016) presentato alla Quinzaine di Cannes, e anch'esso acclamato da gran parte della critica. A questo proposito cito Goffredo Fofi, che così conclude la sua recensione (benevola) su Internazionale: “Quel che è meno accettabile è (...) la sua presunzione autoriale, il suo scarso o nullo amore per i personaggi che sono ridotti a pedine del suo gioco. Larrain non ha nessuna voglia di spiegare la storia (…) e il suo scopo non sembra essere quello di chiarire ma quello, ancora una volta, di imbrogliare”.
Esteta innamorato dei suoi “quadri”, di un punto di colore che spicca sull'arredamento sfumato in azzurro, Larrain ama orchestrare il set e le pieghe delle gonne. Non ha a cuore né Jacqueline né Neruda (chissà Allende) né John F. Kennedy, un mito di cartapesta, viveur, tombeur de femme, l'uomo con cui Jackie “non dorme più da tempo”, il presidente al centro del film, nascosto dietro la donna-schermo che ne imbelletta il ricordo fino a imbrattarlo davanti al taccuino di un giornalista avido, come il regista, di mondanità e colore, lacrime e cronaca di quel cervello schizzato sul cofano dell'auto per le vie di Dallas il 22 novembre 1963.

Il cineasta cileno al suo primo film americano (prodotto da Darren Aronofsky, regista del Cigno nero, star Natalie Portman) è inebriato dalla contraffazione storica espressa da una così dolce bocca, l'altra parte della coppia patinata, la più bella, la più amata, Jacqueline, che ha la stoffa pregiata dell'alta moda, gli abiti d'oro, di raso, di pizzo provati a ripetizione davanti allo schermo in vista della cerimonia funebre.
Larrain dirige su una sceneggiatura non sua che ha ricevuto diversi no da registi Usa, e dove il presidente Kennedy per tre volte viene definito un “cacciatore di comunisti”. L'autore è Noah Oppenheim, giornalista e presidente di Nbc news, sceneggiatore di diverse serie tv di successo, premiato a Venezia per Jackie, film che arriva all'Oscar con tre candidature, attrice (Portman), costumi (Madeline Fontaine), colonna sonora (Mica Levi).
Abbagliato dalle scenografie del francese Jean Rabasse (Oscar, ha lavorato in due film di Bertolucci), lo sguardo si distrae e si perde nella prova mimetica dell'israeliana Natalie Portman, sovrapposta alla vera Jacqueline, voce stridula compresa, e l'orecchio è inondato dalle musiche della britannica Micachu (Mica Levi) tanto che il suono delle immagini si eclissa in uno splendore formale, grazie anche alla presenza di un altro francese, Stéphane Fontaine, direttore della fotografia, e di un'altra Fontaine, Madeline, celebre per aver cucito i vestiti di Il meraviglioso mondo di Amelie. E ci siamo vicini con Jackie tutta superficie e bagliori nel mondo fatato di Camelot, evocato durante l'intervista rilasciata da Jacqueline a Theodore H. White di Life dopo quattro giorni dall'omicidio, gli stessi raccontati nel film. In quella occasione, la first lady dichiarò che il marito preferiva tra tutti i musical di Broadway Camelot, regno leggendario dominato da bontà e giustizia. “Trovata pubblicitaria” per dare idealità alla presidenza e incoronare il frivolo marito novello re Artù? Sì, dice Larrain, che si rispecchia in quella meravigliosa parata di principi e principesse hollywoodiani, necessari al suo cinema sfavillante dell'apparenza.

Il regista nell'affondare l'America anni Sessanta ama il suo duetto divistico, Jackie e John, sostenuto dalla sceneggiatura premiata alla Mostra di Venezia, che osa il dialogo tra Jacqueline e Robert Kennedy (ucciso cinque anni dopo), il quale confessa, di fronte al carrozzone delle esequie imminenti, che il fratello presidente in realtà non avrebbe agito a favore dei diritti civili (in quegli anni si afferma il movimento per i diritti civili degli afroamericani) e contro la guerra in Vietnam. Quando, parola del vero Robert McNamara, segretario della Difesa, JFK la guerra cercò di frenarla. Il “merito” di combattere i vietcong se lo prenderà tutto Lyndon Johnson, lamenta il Bob di Larrain, che infierisce: l'unico pasticcio risolto l'avrebbe combinato proprio lui, John. Quale? L'assalto alla Baia dei Porci, ovvero il tentativo di invadere Cuba da parte di forze anti-castriste con il sopporto della Cia durante l'amministrazione Eisenhower. Come si sa, John F. Kennedy appena arrivato alla presidenza si rifiutò di appoggiare l'invasione dell'isola. E per questo, probabilmente, fu ucciso. “La soluzione del pasticcio” di cui parla il Bob di Jackie è il “no” di JFK ai bombardamenti delle navi russe durante la crisi dei missili di Cuba, atto che impedì lo scoppio della terza guerra mondiale.
Ma non staremo a badare a queste parole al margine della scena visivamente lussuosa e vertiginosa tra le pareti dello studio ovale, lungo prospettive alterate, quasi un 3D dentro spazi oscillanti tra pop e suggestioni pittoriche. Una scena riempita dalla sofferente Jacqueline Kennedy in tailleur color confetto, ignara dell'uccisione di Lee Harvey Oswald che definirà distrattamente un “comunistello”, ammazzato prima di confessare, dice lei, a causa diquesti servizi segreti così inefficienti”. Più che “inefficienti”, i servizi furono i probabili mandanti dell'assassinio di Oswald, ucciso per impedirgli di parlare da Jack Ruby nella Centrale di polizia di Dallas.

La memoria sfuma nel film che prende a pretesto un'epoca per travestirla di niente e altera perfino il celebre filmino di Zapruder, ricostruito dal regista con angolazioni diverse, in ossequio alla Commissione Warren (“una sola pallottola, un solo killer”). E così in controluce passa alla storia la versione di Pablo Larrain dell'America kennedyana, e anche l'aberrazione di un fotografia iconica, quella di Jacqueline Kennedy con il completino rosa macchiato di sangue sovrapposta all'immagine televisiva in bianco e nero. Ci vorrebbe qui un commento di Serge Daney.
Non è un film su John, ma su Jacqueline? Sull'elaborazione del lutto? Già, per dare sostanza al marito vanesio, Jackie lo imbottisce di Lincoln, non prima, però, ignorantella, di aver letto qualche libro sul presidente che abolì la schiavitù. Jacqueline, come si sa, era stata giornalista, era laureata, veniva dall'alta borghesia, ma secondo il film non sapeva bene chi fosse quel Lincoln che troneggiava nella sua camera da letto su un leggio. E neppure chi fosse John. Il presidente democratico che aveva ricucito il filo spezzato dell'America di Franklin D. Roosevelt, quello che aveva dato una speranza alla generazione uscita dal maccartismo e dalla “caccia ai rossi”.
La stucchevole Jackie avvolta nella carta stagnola fa piangere per un presidente che, secondo Larrain, era solo immagine? Commuove di più la Jackie di Andy Warhol che catturò il suo viso prima con le labbra rosse e gli occhi bistrati, poi sotto il velo nero, senza orpelli, così com'era, ombra sfocata di fronte a una bara.



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