sabato 25 febbraio 2017

La nuova ricchezza degli Appennini. Quattro giornalisti e il loro primo scoop. I migrati di Francesco Paolucci



Benito Marinucci come Sergio Zavoli

di Roberto Silvestri 

Fare i turbanti per chi fa chemio
I migrati. Lavoratori immigrati dal sud e dall’est del mondo e disabili in stato d’allarme si incontrano comunicano e discutono in Italia. Per la prima volta. In un film che ha avuto  la sua anteprima mondiale alla 25ma Biennale d'arte di Osijek, in Croazia "Borders of visibility", con una menzione della giuria.
L’iniziativa, appoggiata dalla Rai, dai giornalisti del Tg2 e in particolare da Angelo Figorilli (che adesso torna negli Stati Uniti per racocntarci un pezzo di America Trump) è della Comunità XXIV Luglio, volontari aquilani che svolgono attività di assistenza, ricreazione e formazione diurna di ospiti con problemi fisici e mentali (tra l'altro dal terremoto del 2009 lavorano in un prefabbricato dopo che la loro sede storica è stata dichiarata inagibile). Davide Sabatini e Letizia Ciuffini, della Comunità 24 luglio, si sono occupati della produzione del film.
Gli ospiti, che tornano a dormire a casa, si ritrovano ogni giorno, assistiti da volontari e partecipano a corsi di recitazione, fotografia, teatro, giornalismo, ma anche semplicemente pranzano tutti insieme, organizzano visite guidate e cose del genere.
Contadini provetti
Tra le altre visite quella di un lontano 24 luglio quando molti di loro per la prima volta nella vita andarono al mare. E dal mare arrivano in questi anni molti cittadini in cerca di aiuto. E non arrivano tutti quelli che sono partiti dalle loro case…. 
Se due grandi forze si incontrano, scontrano e uniscono per cambiare il mondo, o almeno i loro mondi, e partendo da soggettività diversamente in rivolta, neppure le mura di Gerico riescono a fermarle.

Non lasciatevi ingannare, poi, dalle cattive abitudini o dagli sguardi addomesticati.
Handicap e disabilità sono parole che soprattutto nel mondo post industriale hanno sempre meno senso, perché non è più la fabbrica a regolare eugeneticamente ritmi e gesti millimetrici di produzione. Gli operai quei contenitori giganteschi e putrescenti di zombie asserviti al montaggio in catena, li hanno definitivamente rasi al suolo. Lingotto è quel che è oggi grazie alla vil razza pagana che terrorizzò come fosse più un mostro che uno spettro dal ’69 al ‘79. Nel mondo del lavoro immateriale di oggi non è la meritocrazia perfomativa ripetitiva e sotto servitù che conta, ma il lavoro cognitivo a 360 gradi, la performance inventiva che assoggetta robot a robot e ne crea di nuovi. Inventiva sociale che meriterebbe salario di cittadinanza subito e per tutti, comunitari, extracomunitari e brexitcomunitari (non come urla il leader dei neonazionalisti del M5S) e non lavoro di cittadinanza, quell’incubo minacciato da Renzi e dai suoi critici di sinistra e estrema sinistra. Chi è abituato al dribbling della mente e del corpo, invece, si incontra e allea molto facilmente con chi è costretto ai dribbling quotidiani per scavalcare dogane, predoni, agenti calcisitci e burocrazie di ogni tipo. Lo vediamo perfettamente in questo film. Inoltre.   



E’ la ricchezza dei migranti che fa paura, non la loro debolezza. La loro bellezza, eleganza, energia radiante, non la loro fragilità (confrontate i corpi che scendono dal barcone o dal gommone, pur provati, con i toxic avenger spesso adiposi di chi li avvolge in coperte) che terrorizza il patetico razzista. La strapotenza, interiore ed esteriore, morale e fisica. Un manifesto pubblicitario incontrastabile per la transculturalità è questo I migrati. Rispetto ad altri documentari simili (quello bellissimo di Domenico Distilo, per esempio, Inatteso, 2005) non è la rabbia o il risentimento contro il bizantinismo istituzionale e la durezza concentrazionaria dell’Europa ad essere radiografati e esposti alla pubblica indignazione. Quel che si mette in risalto qui è proprio una  doppia mancanza di risentimento. La voglia di aprire capitoli altro. L’egemonia dei profughi politici stranieri e degli outsider nostrani. Stupefacente.
Quella forza che fa rischiare la vita a uomini donne e bambini perché solo il viaggio omerico (nel senso dell’atto dovuto al richiedente asilo, perché clandestini siamo noi se li aspettiamo a casa col ghigno di Trump) può strappar catene, persecuzioni, carestie prodotte da chi sottosviluppa da almeno 5 secoli le loro terre. Ma anche quella vis multifamiliare che connette la maggioranza dei profughi afroasiatici a chi resta a casa, in Camerun, Gambia, Senegal, Nigeria, Burkina Faso, Gabon, Costa d’Avorio, Bangladesh, Pakistan, Siria…. Una rete più potente di ogni social network. Una bomba atomica spirituale d’immane potenza, come fu quella delle nostre famiglie pugliesi, friulane, siciliane, toscane, campane, calabresi che protessero il ciclo dell’emigrazione italiana non solo in America e Nord Europa nel secolo scorso, ma anche in Africa. Ricordiamoci che in Tunisia c’erano più italiani che francesi. E non era nostra colonia.   Non ci credete che è questa strapotenza che terrorizza? Eppure vediamo in un attimo degli esuli politici del Bangladesh giocare a cricket. Se fossimo un po’ più scaltri, e trattassimo meglio i richiedenti asilo, potremmo oggi contare su una squadra transnazionale di cricket da sei nazioni e che tremare il mondo fa come West Indies o Pakistan. Invece. Addirittura a Lecce ricordo che li hanno cacciati dall’ex campo sportivo Carlo Pranzo dove si allenavano indiani e pakistani, per fare un parking. E poi i leccesi si meravigliano perché hanno perso contro Matera l’occasione del secolo. Essere capitale della cultura. Ci vuole un po’ di cultura odierna per meritare la cultura passata rigogliosa della Lecce barocca.    
Benito Marinucci al centro
Dunque è un Tg2 Dossier davvero speciale quello va in onda tra poco, oggi 25 febbraio alle 23,50 su Raidue, visto che l’emittente cattolica Tv2000, diretta dall'ex Rai Ruffini, in miracoloso accordo distributivo, replica alle 19.05 di domani. Il giovane filmmaker Francesco Paolucci ha diretto un’inchiesta giornalistica estremamente strana, I migrati. Frutto di un incontro tra professionisti della comunicazione (operatori, fonici, musicisti come Francesco Conatoni e Tommaso Ciotti) e quattro loro allievi addestrati a far domande, col taccuino in mano, come quelle dei giornalisti più saggi, che sembrano inguaribilmente ingenue e invece sono quelle più illuminanti e alchemicamente corrette. I 4 reporter trascinati dal più grintoso di tutti, Benito Marinucci (gli altri sono Barbara Fontanazza, Gianluca Corsi, Giovanni Diletti) girano in piena estate su un pulmino per i paesi dell'Appennino che hanno accolto i migranti, dalle Marche al Molise, all’Abruzzo. E qualcuno di quei villaggi sarà, dopo, anche terremotato per ringraziamento. Fanno domande agli ospiti, agli uomini e alle donne che hanno trovato lavoro e a chi lo sta cercando, alle comunità che li accolgono, ai paesani in piazza, non tutti sempre altrettanto entusiasti e curiosi come i nostri moschettieri, e discutono tra di loro. “Come fanno senza la loro famiglia? Come faranno a girare per l’Italia questi ragazzi senza passaporto? Non potranno trovar salario, casa… E poi sono musulmani. Che vuol dire? Perché fanno il Ramadan?".
Poi arriva la sequenza delle donne. Bellissime. Elegantissime. Coltissime. Affascinanti. E quel frammento coordinato da Barbara Fontanazza vale tutto il film. Quando avviene il contact. Di testa. Di pansia. Di cuore. 








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