sabato 18 febbraio 2017

Un cult in più. Senza lasciare traccia di Gianclaudio Cappai.


Gianclaudio Cappai sul set

Roberto Silvestri

In un'Italia che non c'è più, spenta, come la fornace antica che è il set principale e postindustriale della storia, in un paese tutto da ricucire con cura, come la sublime tela quattrocentesca di cui si occupa la restauratrice Elena (Valentina Cervi, sensibile alle foglie come in Rien su Robert)), e non con urla e lazzi futili e savonaroleschi, bisognerebbe ricominciare dall'affrontare i traumi rimossi, ma ancora brucianti: la mascolinità evaporata; un patriarcato secolarmente aggressivo; l'eugenismo sadico e maligno; la sottomissione sessuale dell'apprendista all'artigiano (già raccontata nell'Uomo di cenere del tunisino Nouri Bouzid), al proprietario di chi proprietario non è; il colonialismo e il razzismo endemico che dividiamo con l'intera Europa, torturatrice dell'altro, dell'alieno, per secoli. E' stato soprattutto il femminismo drastico, esperto in mostri celibi, l'antidoto, un movimento reale che ci ha reso via via capaci, oggi, di vederli in faccia, questi traumi. Primo passo per superarli. Un processo di riconciliazione e pacificazione, e non di vendetta, è richiesto. Come in Ruanda. Saper rendere nuovamente commestibili le proprie radici, cristiane e precristiane, pagane e illuministe, rinascimentali e romantiche, maschiliste, animiste e perfino pedofile. Papa Francesco è della partita, finalmente. Eccitare il desiderio del maestro, ecco l'atto primordiale del passaggio di autorità, per via sessuale, dal filosofo all'allievo d'epoca socratica. Poi la pratica si insquallidì non poco nel travaso ecclesiastico organizzato, come leggiamo sui giornali di Boston. Altro che della scissione Pd, è della sua fusione perversa tra marxisti e gesuiti che qui, molto indirettamente, si parla insomma attoniti.

Elena Radonicich
Questo è infatti solo il sottofondo poetico-politico, ambiziosissimo, di un noir da combattimento (e, nel fuori campo,  anche horror insostenibile) che racconta la storia di Bruno (Michele Riondino, pieno di cicatrici ed equilibrato come la sabbia dello Utah dopo un test atomico di profondità), un uomo di oggi che vuole venire a capo di una psicosi di ieri che lo sta lentamente bruciando dal di dentro, tra vergogne inconfessabili e frenesie corporali che non sono altro - direbbe Filone di Alessandria  -  della dimostrazione di quella "bassa qualità morale e intellettuale di chi si agita continuamente e compie gesti sconsiderati (simile alla stultitia dell'impudicus, e non solo dei Trump). Attenti ai microgesti di Riondino, non sono esibiti come quelli di Giannini. Più sottili. L'inconscio ribelle del protagonista ribolle sotto traccia e sotto pelle finché non torna nel luogo dove la tragedia è cominciata: una fornace ormai spenta dove vive un anziano (Vitaliano Trevisan), sua figlia (Elena Radonicich, guidata come un corpo argenteo), un cavallo... Nessuno riconosce l'intruso ambiguo, familiare ma sfuggente. Per guarire dalla sua malattia interiore Bruno dovrà trovare il colpevole di una antica e ripetuta violenza, ma anche fermare l'intruso che è in lui.


Uscito nell'aprile scorso in tutta Italia torna al Detour di Roma, questa sera, e se lo avete perso recuperatelo, il cult movie Senza lasciar traccia, l'opera prima - un "noir subalpino" ossessivo come Ossessione - di un cineasta estremamente particolare, perché si smarca dalla abituale biforcazione dei suoi colleghi italiani, che sono maestri o nell'azione comica (dalla commedia alla farsa) o in quella drammatica (dal thriller all'horror al "politico") e raramente sanno equilibrare o ben squilibrare le due cose. E come succede di fronte a ogni cult movie: attenzione! Queste sono immagini pericolose.

Michele riondino (Bruno), il cavallo e Gianclaudio Cappai
Gianclaudio Cappai, sardo di Cagliari, 41 anni, diplomato all'Accademia dell'Immagine di L'Aquila, che scrive e produce senza accettare interferenze (se non della sua compagnia di produzione, la Hirafilm), con tutti i rischi che questo atteggiamento rigoroso produce, a livello di distribuzione facilitata e di propensione a compromessi istituzionali, ha dimostrato infatti già una rara sensibilità e tonalità tragica nei due precedenti corti-mediometraggi, Purché lo senta sepolto (2006), che ha vinto il Torino Film Festival  e So che c'è un uomo (2009).

Voglio dire che nei suoi noir la catarsi, il liberatorio distacco dalle passioni furibonde rappresentate sulla scena non è mai data, e che gli eccelsi pulsionali si scatenano ancor più liberamente nel lavorio ricettivo dello spettatore, aiutato a mettere in atto, o in scena, come nel transfert, l'inconscio ribelle. Insomma Cappai è tra i pochi cineasti europei (Aki Kaurismaki, Fassbinder un tempo,  certamente Bellocchio, De Bernardi...) nei cui drammi "i fatti parlano da soli", pericolosamente, prescindendo dalla cintura di sicurezza della struttura di genere (che dovrebbe controllarne il potenziale esplosivo, o giocarvici in maniera rococò, come avviene in molte serie tv apparentemente tragiche). Dunque creare l'atmosfera, immagini non ipnotiche ma aperte, piene di finte e di controtempi, come nel calcio o nella lotta libera, è il primo compito del copione (scritto con la socia Lea Tafuri, che di noir americano è espertissima).
Valentina Cervi, la restauratrice di tele e di maschi 
Il noir non è altro che atmosfera che pensa. Clima che traghetta il giallo in territori del subconscio molto pià dark. Che scombussola le gerarchie simboliche, lo spazio-tempo e gli archetipi. Rendendo spaesati tutti coloro che  del giallo adorano la linea narrativa a orologeria, diritta e sicura, capace di rispondere all'istante a ogni "Perché succede questo?" o "Chi è il colpevole?" o "Quando è che muore il cattivo?". Il noir invece utilizza il metodo barocco, difficile procedimento che fa vedere ciò che non c'è e cela e nasconde alla vista proprio ciò che si riprende.

Gli inganni della vista sono affidati alle musiche di Theo Teardo che mai sottolineano o raddoppiano l'effetto, anzi lo frammentano, e ad Alessandro Bertozzi, scenografo, che non solo allestisce un set mefistofelico e dantesco che ci è congegnale, l'architettura industriale dismessa, una sofferenza in meno per i proletari, ma anche un anti-set che contesta il tessuto estetico dominante nel nostro paese: l'architettura agricola, da tempo espulsa dal cinema, il lavoro cognitivo collettivo all'opera (le scene del restauro). Ecco in Bruno noi vediamo agitarsi contemporaneamente due corpi. Il lottatore cristiano e il lottatore pagano. Lo circondano nemici (a livello spettrale e corporale), allenatori, consiglieri e critici...  
Ed è la loro dialettica interna a Bruno che viene messa in scena. Senza curarsi del problema, da film mediocre e spiritualmente dozzinale, tipo Il cliente di Farhadi, se sia importante essere carnefice o moralmente superiore e dunque assolutore. Il lottatore pagano non deve esercitare una supremazia sull'altro, deve essere solo preparato a rintuzzare ogni attacco possibile. Ma non deve sconfiggere prima di tutto se stesso, e dunque poi l'avversario, considerato che dentro di sé può esserci il diavolo. Il lottatore cristiano ha un problema interiore di primato e di salvezza (vedi La la land) che quello pagano non avrà mai. E questo film caccia defintivamente il diavolo fuori dal corpo di Bruno. Ottimo chirurgo Cappai. Foucault (Ermeneutica del soggetto, da qualche parte) ne sarebbe colpito. 



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