lunedì 8 maggio 2017

Identificazione di un capolavoro della modernità. Blow up su Blow up di Valentina Agostinis

David Hemmings e le "modelle impietrite" 

Roberto Silvestri

All’inizio si intitolava Storia di un uomo e di una donna in una bella mattina di autunno. Inizialmente il protagonista era un pittore. Poi è diventato un classico del cinema moderno. Blow up. 1966. Londra. La storia di un fotografo di moda che scopre, nascosto ai bordi di una sua istantanea, il cadavere di un uomo nel parco. Lo inseguono per togliergli il rullino. Quel corpo poi scompare nel nulla….Terence Stamp e Jane Birkin lasciano i ruoli di protagonisti allo squattrinato teatrante off off  David Hemmings e alla aristocratica della scena e shakespeariana Vanessa Redgrave… Il pittore è diventato fotografo.

David Hemmings in Blow Up 

E il film? Più si percepisce, meno si capisce. L’immagine non ci nasconde mai nulla, ma più svela e più distrugge conformazioni, figure, forme, cartografie… E non stiamo parlando dell’immagine tv. Quella che Godard chiama il visuale. L’immagine imprigionata e assassinata. Banale e volgare. Menzognera e autoritaria. Ma di qualcosa che apre l’intero sistema dei segni e dei sensi. E delle facoltà umane. E ti permette di resistere alle “parole d’ordine” subliminali del visuale.
Buon allievo di Spinosa, Michelangelo Antonioni si è sempre scontrato a pugni con il reale: vedeva, identificava, guardava, scrutava e osservava. E si guardava guardare. Perché, ricordava un immenso critico del secolo scorso, Enzo Ungari, “era disinteressato alla realtà nel cinema ma molto interessato alla realtà del cinema”.

David Hemmings in Bow Up 

Lo posso dire anche per esperienza personale. L’intensità dello sguardo Antonioni era vibrante (e, per chi ne amava i film, contagiosa). Anche se gli capitava di entrare magari solo in un portone di casa di notte (l’unica volta che l’ho incrociato per caso e non per motivi professionali). Dava l’impressione di far carrellate immaginarie, tanta era l’energia del suo vedere, nel vuoto e dentro il vuoto. Nei bianchi dell’action painting. Tra i puntini di colore dei puntilisti. Tra le forme geometriche di un astrattista drastico come l’inglese Ian Stephenson, là dove l’energia è sterminatrice/ricreatrice di materia.
Con la realtà (del cinema, e delle sue scaturigini, la fotografia) aveva un rapporto di scontro incontro penetrazione attraversamento. Due accadimenti si ripetono di solito nei suoi film. L’avvenimento uno (un omicidio, un suicidio, una sparizione) e l’avvenimento due (che è omologo al primo, lo contraddice, lo conferma o lo ribalta). Come risultato scientifico di questa ripetizione si scopre la natura e le proprietà di una realtà sempre più opaca. Il contrario del metodo Hitchcock. Lì, dall’opaco alla messa a fuoco del senso. Siamo qui, invece, alla disintegrazione dello spettacolo.

Un quadro di Ian Stephenson
Credo che Antonioni abbia preferito il cinema alla pittura perché gli permetteva di guardare, vedere e osservare di più, attraverso il general intellect dei mille occhi di una troupe e di un cast accuratamente scelti, e soprattutto grazie ai mezzi ottici scientificamente sempre più perfetti (a imitazione delle sostanze psicotrope) che toccano la superficie delle cose e passano oltre il verosimile, l’informe, il deformato e l’astratto. Nel 1964 Antonioni scriveva: “Sottoponendo la pellicola impressionata a un determinato processo di  latensificazione , si riescono a mettere in evidenza elementi dell’immagine che il normale processo di sviluppo non basta a rivelare. Per esempio un angolo di strada illuminato dalla luce debole di un faro risulta perfettamente visibile anche nei particolari se la pellicola viene latensificata, altrimenti no. La cosa mi ha sempre stupito. Significa – pensavo – che sulla pellicola l’impressione delle cose debolmente illuminate dalla luce del fanale c’è. C’è concretamente. La pellicola dunque è più sensibile della cellula fotoelettrica.  Forse la pellicola registra tutto, con qualsiasi luce, anche nel buio, come l’occhio dei gatti, come un apparecchio militare americano di recente invenzione, e soltanto la nostra arretratezza tecnica non ci consente di rivelare tutto quello che c’è sul fotogramma. Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà”…..
La modella tedesca Veruskha
Il reale cominciava insomma là dove il senso si ferma. Altro che alienazione, incomunicabilità, esistenze inconsistenti e solitarie, o cercare di catturare il volto e l’anima di una metropoli…. Tutti questi contenuti esteriori (“Zabrinsky Point non è una satira dell’America feroce nixoniana, come Il ristorante di Alice, Easy Rider, Medium cool e More, semmai è la luna vista dall’America”, sempre Ungari) erano la cornice di una superfice riflettente e specchiante il cosmo (che disperde i contenuti, per chi abbia voglia di rincorrerli: da qui l’umorismo slapstick del procedimento di un autore più comico di quanto si pensi). Antonioni voleva dipingere senza essere un pittore.  Come un poeta “è un uomo che scrive senza essere uno scrittore” (Cocteau).

Una foto sociale di McCullin

Tre millimetri al giorno è il film di Jack Arnold che più mi fa pensare al film teoricamente più cristallino di Antonioni, appunto a Blow up, che superò d’un colpo realismo (anche non socialista) e neorealismo perché come scrisse Robbe Grillet contrapponeva alle ideologie che fissano la realtà e la imprigionano in schemi alla realtà “aperta”, vitale, in mutazione, cangiante, astratta, rock, rivoluzionaria, impossibile da ridurre al senso unico.
Il senso è impossibile da fissare anche se abbiamo visto tutto. E più abbiamo percepito più siamo aperti a ogni genere di significato possibile, più siamo lavoratori dell’Immaginario (e più si capisce più l’immaginario diminuisce). Insomma sarebbe proprio causata da un suo colpevole incipit la nascita del cosiddetto cinema del reale…. quel documentarismo d’azione e d’anatomia sociale che esplora le incertezze di chi si guarda guardare, più che incantarsi nel catturare il visuale. Tema. La mucca. Allievo Jean-Luc Godard. Testo. “La mucca è composta da un esterno e da un interno. Se togli l’esterno resta l’interno. Se togli l’interno resta l’anima” (Vivre sa vie). Il cinema moderno è animista. Blow up, un primissimo piano sull’anima. E oltre. Si occupa dell’anima delle cose. E non c’è esplorazione più materialista di catturare il respiro e l’energia della swinging London di Jeff Beck, di Mary Quant, della boutique di moda “Granny takes a trip”, della galleria d’arte di Barry Miles, delle foto fashion di David Montgomery…
Il fotografo David Montgomery 
Ho fatto tutto questo pippone perché in un bellissimo doc su Blow up (Palma d’oro 1967, e lo rivedremo restaurato tra qualche giorno a Cannes 70), che sembra tradizionale, format Bbc, si costruisce invece senza menarsela troppo proprio quello bel buco nero, questo vuoto di senso. E non si riempie affatto, anzi.  
Attraverso splendide interviste (tra gli altri, ai cineasti Clare Peploe, Piers Haggard e Andrew Sinclair; al manager degli Yardbirds e indirettamente dei Led Zeppelin Simon Napier-Bell; allo storico della fotografia Philippe Garner; alla modella Jill Kennington; alla vedova di Stephenson, Kate), tutte con perfetti raccordi sull’asse, un po’ di girato ex novo significativo, a darci la cartografia dell’evento, foto mozzafiato, una bella partitura musicale “a tema” e qualche indimenticabile sequenza del film, ecco che si cattura, tra Kings Road e Prince Place, Edith Grove Road e il Marion Park, il set, anche mentale, di Antonioni (e oggi completamente gentrificato). La meticolosa “radiografia sociopsicologica” dei fotografi di moda più alla moda; la difficoltà di comunicazione per il suo inglese non perfetto;  la geometrica sicurezza, però, nel trovare e usare gli spazi giusti e nel rapporto, anche inquietante, con gli attori; l’attrazione fatale per il lato oscuro e menzognero del mercato discografico e del divismo. Quel differente, inedito “sentimento del reale”, come Moravia spiegò quel differente “touch” nel fare cinema saggistico/narrativo, di storie che raccontano il loro prodursi, come nella scrittura dei nouveau roman.  Ma ecco che, sul più bello di una di queste interviste, si scopre che Antonioni ha tolto qualcosa dal suo film più alla moda della sua carriera, per i vestiti, la musica, le foto, l’arredamento, l’erotismo. Via la scena della chiacchierata tra Hemmings e uno scrittore. Avrebbe spiegato il senso del film, facendo decifrare un testo così complesso e misterioso, pieno di simboli, anche se concreti perché nascono dall’oggettività dei personaggi. E resterà più ostico ancora de L’Avventura, Professione Reporter e Deserto rosso.  

Un quadro di Richard Hamilton, artista della pop art britannica 
Blow up su Blow up è il titolo di questo bellissimo documentario prodotto quest’anno da Minimum Fax e da Sky Arte che la giornalista e studiosa friulana Valentina Agostinis (già autrice di un fondamentale libro su Tina Modotti) ha sviluppato, dopo un lungo soggiorno nella capitale britannica, da un suo acuto e accurato saggio del 2012 sulla lavorazione del classico di Michelangelo Antonioni girato a Londra (in Italia con la Santa Sede imperante la censura non avrebbe mai tolleraro certe scene).   Attraverso Clare e Mark Peploe Antonioni viene introdotto nei locali, nelle gallerie, nei club e negli atelier a ridosso col british rock e gli “assoluti principianti” (di cui Blow up sarà senza troppo volerlo specchio lisergico), della rivoluzione nella moda (ha colorato la grigia e plumbea atmosfera ereditata da ben quattro tremendi governi conservatori, fa capire Clare Peploe), nella vita (la minigonna, la libertà sessuale, le droghe, le comuni…), nello stile (attraverso lo ska era entrata nel modo di vivere britannico la gioia di vivere danzando delle culture West Indies) e nell’arte (“la musica che rompeva le orecchia”, scriveva Tonino Guerra, ma anche la pop art di Richard Hamilton, i corpi che più anoressici non si può delle top model Jean Shrimpton, Peggy Maffit e Melanie Hampshire; i Rolling Stones che adoravano oltre a Dylan anche Dylan Thomas; i fotografi e i grafici che reinventavano il look e la pubblicità, Paul McCartney che seguiva le eccitanti mostre d’arte della libreria Indica e girava home movies underground; le istantanee glam&social di Michael Rainey, David Montgomery e Don McCullin…). E non a caso lo aveva intitolato Swinging City - Londra centro del mondo perché in quel momento perfino Jimi Hendrix non poteva fare a meno di raggiungere la scena musicale londinese, rabbiosa e deliziosa, capace di proseguire sulla traccia di Presley e dei bluesmen statunitensi adorati, per non essere tagliato fuori dalle scoperte più avanzate del momento. Valentina Agostinis ha vissuto a Londra gli anni settanta che ancora scodellavano le energie antagoniste di quel decennio, fino all’esplosione “barocca” del punk. E il suo montaggio disincarnato, dove niente è orpello e tutto materia incandescente, dimostra che la lezione di Sid Vicious non è passata invano. Anche standard come My Way o Blow up possono rivivere se se ne deformano la melodia e l’armonia per evidenziarne con amore i buchi e i vuoti fertili.


ps. Per chi non è abbonato a Sky per ora l'unico modo per vedere il documentario Blow up su Blow up di Valentina Agostinis è acquistare, via Amazon, il dvd edito da Criterion. Certo è un dvd da area americana, ma su qualunque pc si può vedere se non è anocra fissato sull'area europea. In ogni caso teniamo aggiornati in caso di proiezioni.  

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